“Il dolore era stato tramandato da una generazione all’altra, e questo è ciò che tante persone non sono mai riuscite a capire, a meno che non fosse storia, a meno che questa non fosse la loro storia. Per alcuni gruppi, in America, il trauma era una sorta di eredità.”

Quelli che pensavamo di conoscere, di David Joy (traduzione di Gianluca Testani; Jimenez Edizioni), è un duro, incisivo e credibile romanzo di uno dei più interessanti e talentuosi scrittori statunitensi contemporanei. La storia si sviluppa intorno a Toya, giovane artista afroamericana che vive ad Atlanta, che torna a Sylva, tra le montagne della Carolina del Nord, per trascorrere l’estate nella sua casa d’infanzia, ospite di sua nonna Vess. Qui, Toya, lavora alla sua tesi di laurea ed esplora il passato della sua famiglia. Un giorno, si imbatte in una statua confederata nella piazza della città e, credendo che sia un simbolo di razzismo, decide di deturparla. Gesto che divide la comunità, perché se è vero che una parte di essa condivide, non troppo apertamente, i sentimenti della giovane artista, dall’altra c’è chi vede in quella statua una sorta di memoria concreta, un richiamo alle tradizioni del Sud.

Nel frattempo, gli agenti locali trovano un uomo che dorme nel retro di una station wagon e credono che non sia altro che un vagabondo alcolizzato. Tuttavia, una perquisizione del veicolo dell’uomo rivela che si tratta di un membro di alto rango del Ku Klux Klan, oltre che la scoperta di un taccuino pieno di nomi di importanti figure pubbliche locali e che minaccia di sconvolgere la quiete di Sylva e delle montagne circostanti.

“Una ragazza fa il turno di notte in un’area di servizio che vende più alcol che benzina e le capita di vedere gente di tutti i tipi entrare da quella porta. Se si fosse trattato di uno dei frequentatori abituali, lei non avrebbe battuto ciglio. Ma il fatto era che non conosceva quest’uomo, e in un posto come questo una ragazza come lei arrivava a conoscere tutti gli alcolizzati della città.”

Un romanzo doloroso e teso. Un plot letterario che si destreggia tra splendide descrizioni ambientali e magistrali dialoghi colloquiali capaci di ricreare il parlato e la musicalità della Carolina del Nord (propriamente della contea di Jackson). Una storia dove il razzismo è evidente e latente, a seconda del punto di vista analizzato, e dove la solidarietà e l’amore fanno da contraltare. David Joy riesce, insomma, a fare un ritratto credibile delle zone periferiche degli Stati Uniti, e di tutto ciò che le sta attraversando.

“Raccontavano le storie della gente, e quelle storie contenevano inevitabilmente i dettagli che quelle persone si erano tramandate. Volti ridotti a scheletri, mani ridotte a ossa. Bare, vestiti, tutto in differenti stadi di decomposizione. C’era sempre qualcuno che nominava i capelli, il fatto che avevano continuato a crescere nella tomba.”

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