Ci sono momenti in cui l’Angelo della Storia passa tra le case e guarda sugli stipiti delle porte se ci sono i segni di menti e cuori aperti oppure di animi chiusi in se stessi. In tutte le culture si trovano simili immagini che rivelano un passaggio cruciale. Thomas Friedman, editorialista del New York Times, ha descritto questa stagione in maniera precisa: “Trovo inquietante e deprimente che oggi non ci sia nessun leader israeliano di rilievo nella coalizione di governo, nell’opposizione o nelle forze armate che aiuti coerentemente gli israeliani a capire questa alternativa – ridursi a paria globali o essere partner in Medio Oriente – né che spieghi perché dovrebbero scegliere la seconda”.
L’alternativa è proprio questa. Non si tratta di passare sopra agli atti barbari compiuti il 7 ottobre durante l’attacco di Hamas – sono incancellabili – ma si tratta di comprendere che nulla, proprio nulla giustifica la brutale carneficina che da mesi è in corso a Gaza ad opera del governo e dell’esercito israeliano. L’odio di Hamas, il ruolo dell’Iran, gli assi del male, le storie sugli scudi umani, il richiamo all’autodifesa… tutto, ma proprio tutto sbiadisce dinanzi ai cadaveri di dodicimila bambini, al numero incredibile di trentaquattromila morti (24.000 identificati, gli altri ancora senza nome), agli ospedali bombardati, alla fame imposta sistematicamente alla popolazione di Gaza, al taglio di rifornimenti di medicinali.
In Medio Oriente coloro, che con la memoria vanno indietro sulle orme della storia, ricordano un solo esempio paragonabile al massacro di Gaza, con i palestinesi cacciati da un angolo all’altro come un branco di animali da sgozzare: la carneficina dei Mongoli a Baghdad nel 1258.
Il voto schiacciante con cui l’assemblea dell’Onu ha sostenuto il riconoscimento dello stato di Palestina e la misera pattuglia di chi si è schierato dalla parte del veto statunitense evidenzia il problema cruciale. Non ha senso ripercorrere il gomitolo degli ultimi settant’anni, le colpe reciproche, la tragedia delle vittime di entrambe le parti, occasioni perse o sabotate.
Ha senso solo mettere mano alla guarigione della ferita cancerogena, rappresentata dall’irrisolta questione israelo-palestinese. E la guarigione ha un solo nome: nascita dello stato Palestina in relazione di pace e collaborazione con Israele. Tenacemente papa Francesco esorta di continuo le nazioni ad “aiutare israeliani e palestinesi a vivere in due Stati, fianco a fianco, in sicurezza”.
Per parte sua il cardinale Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini, ha giustamente individuato come fattore negativo il congelarsi dei rapporti tra le comunità religiose in Terrasanta: “Si ha l’impressione che ciascuno si esprima esclusivamente all’interno della prospettiva della propria comunità”.
In un recente intervento lo scrittore israeliano David Grossman ha evocato la metafora di Accordi di Abramo, che coinvolgano la Palestina. Con lucidità ha aggiunto che non è possibile né pensabile di “sottomettere” i palestinesi. I duecento fanatici suprematisti filo-israeliani che giorni fa hanno attaccato di notte con bastoni l’accampamento dei pacifici dimostranti per la Palestina all’università di California, gridando “Questa è la nuova Nakba” (la “catastrofe”, la pulizia etnica attuata nei confronti della popolazione palestinese nel 1948), non rappresentano la ricchezza intellettuale, il senso della cultura e l’attaccamento alla democrazia dell’ebraismo americano nel suo complesso.
Ma rappresentano, unitamente ai coloni razzisti che da mesi sottopongono i palestinesi ad uno stillicidio di pogrom in Cisgiordania – insieme ad una parte notevole della classe di governo e a una parte non indifferente dell’elettorato israeliano – una massa d’opinione che intende il futuro d’Israele basato soltanto sul predominio.
E’ qui che s’impone la scelta dell’oggi. Il cattolico Mattarella, presidente della Repubblica, lo ha detto senza ambiguità: “Coloro che hanno sofferto il turpe tentativo (con la Shoah) di cancellare il proprio popolo dalla terra, sanno che non si può negare a un altro popolo il diritto a uno Stato”. Su questa base soltanto si può costruire un futuro riconciliato. Il resto fa parte dell’azzeccagarbuglismo della propaganda politica. Riconciliarsi significa riconoscere e condividere il dolore, i traumi, le paure, le ferite altrui. Riconciliarsi significa riconoscersi nella tragedia fratelli e sorelle. E’ la via scelta dal Sudafrica a suo tempo. Ma è stato possibile perché il lavoro di riconciliazione è partito nel momento in cui l’apartheid è stata abolita.
Non si è fatta una road map per abolire l’apartheid, non si sono “aperte prospettive”… Si è voltato pagina e basta. Il che per il dopo Gaza significa cessate il fuoco, liberazione di ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi, libere elezioni nei territori occupati e nascita di un nuovo governo palestinese che proclami lo Stato di Palestina.
Non è una questione che riguarda soltanto chi vive in Medio Oriente. Anche la diaspora ebraica per la sua rilevanza e il suo peso in molti Stati può dare il suo contributo. Deciderà di spingere per una svolta? Lascerà per inerzia le mani libere a Netanyahu e agli estremisti del suo governo?
Sarebbe un segnale importante se l’ebraismo organizzato italiano riprendesse e rilanciasse l’appello sottoscritto a marzo da Liliana Segre e dal vescovo Vincenzo Paglia insieme ad altre personalità: “Il nostro appello è per la fine di una strage, che assieme a migliaia di corpi spegne la speranza per una convivenza possibile di due popoli in due Stati…il nostro appello è per la difesa della civiltà”.