di Michele Sanfilippo

La serie infinita di casi di “malapolitica” che si succedono, ovunque, nel nostro paese da sì l’idea di quanto sia infimo il livello dei politici italiani, di ogni schieramento politico, ma ancor di più è indicativa di quanto poco questi abbiano da temere dalla legge.

La Giustizia italiana soffre di mille problemi. Primo tra tutti la lentezza che impedisce ad un’enorme quantità di processi di giungere al termine causando, tra gli altri danni, un senso d’impotenza e di sfiducia a tutte le parti lese, che non avranno mai alcuna forma di risarcimento. Se la Giustizia è lenta vi sono delle cause piuttosto evidenti:
– il combinato disposto di tre gradi processuali (troppi già di per sé) e la prescrizione che non si ferma a processo iniziato (un assurdo giuridico dato che la prescrizione dovrebbe intervenire quando lo Stato non è più interessato a celebrare un processo mentre se il processo è già iniziato vuol dire che l’interesse c’è). La prescrizione rappresenta un incentivo a percorrere i tre gradi di giudizio nella speranza, quasi certezza se si hanno gli avvocati giusti, che la prescrizione arrivi prima della sentenza definitiva (un sistema perfetto per una classe politica dalla moralità non proprio specchiata);
carenze d’organico mai colmate;
– pochissimi investimenti nella digitalizzazione a supporto del lavoro delle Procure.

Ad onor del vero, da Mani Pulite in avanti non ci sono stati provvedimenti governativi utili per mitigare i suddetti problemi, con l’eccezione della riforma della prescrizione Bonafede, prontamente “abbattuta” dalla riforma Cartabia. Eppure, quest’ultimo governo si sta distinguendo per l’accanimento nei confronti della magistratura che, con un incredibile rovesciamento tra causa ed effetto, viene evidentemente reputata causa di tutti i problemi.

Da parte del ministro della Giustizia (del resto molto apprezzato da Berlusconi che pensava che i magistrati “sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana”), si sono, infatti, succedute proposte relative alla separazione delle carriere o critiche per un uso eccessivo di intercettazioni telefoniche o divieti da parte della stampa di pubblicare informazioni sulle indagini in corso. Tutte questioni che poco o nulla servono a risolvere il problema della velocizzazione dei tempi di celebrazione dei processi e che invece mirano ad intimidire se non assoggettare il potere giudiziario a quello legislativo, che, come abbiamo visto accadere in Turchia, Ungheria e perfino in Israele, è il primo passo verso il depotenziamento di una democrazia compiuta. E poi, l’attacco: una nuova legge proposta dal ministro, che introduce dei test di idoneità per chi vuol accedere al mestiere di magistrato: è il mezzo più subdolo per ottenere tale risultato.

È evidente per chiunque il rischio che i test possano costituire, magari non subito ma quando lo si riterrà utile, uno sbarramento per persone poco “gradite” e, quindi, diventare uno strumento per selezionare magistrati più vicini al potere del momento. Ma a ben pensarci è probabile che mi sbagli. Forse è proprio necessario effettuare dei test d’idoneità per diventare magistrati dato che bisogna davvero essere pazzi (come lo sono stati Falcone, Borsellino, Caselli, Gratteri, Di Matteo, ma potrei citarne mille altri) a voler fare i magistrati, e spendere una vita sotto scorta o, peggio, essere uccisi in servizio, in un paese storto come l’Italia dove chi governa è, perfino, peggio di chi è governato.

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