Capita spesso, con l’arte concettuale, di chiedersi dove stiano i concetti. Non è il caso di Sergio Lombardo. Basta infatti ascoltarlo mentre decifra per noi i capisaldi del proprio metodo per capire che le sue intuizioni estetico-scientifiche si svolgono col più assoluto rigore speculativo: nessuna imprecisione, l’impiego di un lessico impeccabile dove la logica degli argomenti disegna figure e procedimenti netti nello spazio mentale (ma anche contemporaneamente agito) dell’arte.
Niente improvvisazioni, quindi: nessuna concessione a quella (giustamente, e con pizzico di elitismo, stigmatizzata) “creatività smart, confusamente arbitraria, a danno della ricerca teorica e dello studio di valori meno edonistici”, riferimento al mondo dei vernissage prêt-à-porter, delle residenze, dei rampanti imboccati da critici pedestri, cricche d’interesse e improbabili collezionisti. Centro di tutto il suo lavoro, precisa Lombardo, è la “costruzione della teoria eventualista”, che ruota però intorno a un concetto di evento del tutto peculiare.
Cerco brevemente di spiegare perché, riprendendo i punti salienti di due scritti, La teoria eventualista (1987) e Eventualismo (1989), il primo dei quali è stato programmaticamente voluto da Lombardo nel pannello che inaugura la mostra. Vi compare una definizione dove si dice che “è definito evento qualsiasi contenuto mentale o vissuto psicologico intenso, originale, spontaneo, imprevedibile e irripetibile, che, non potendo essere conosciuto direttamente da osservatori esterni e neutrali, deve essere dedotto dal comportamento di individui sottoposti a stimolazioni appositamente predisposte”.
Col tema dell’evento si sono cimentati in tanti, ma Lombardo interviene nel dibattito con la massima originalità. Non soltanto perché l’ambito di applicazione è quello artistico, ma poiché, come si evince, l’evento, nel suo caso, viene pensato ex parte subjecti e non objecti. Vale a dire che evento non è qualcosa che avvenga in modo neutrale e impersonale e con cui, solo secondariamente, possa entrare in contatto un Io. Lombardo – e diviene così pienamente leggibile il radicamento della sua concezione nella feconda filiera delle ricerche psicologiche postfreudiane – rovescia la prospettiva: evento è quel che accade nel e al ‘soggetto’ quando viene intercettato da uno stato di cose (Sachverhalt) scientemente configurato e posto in essere.
Tuttavia – ed è punto dirimente della sua prassi teorica – quel che lo stimolo eventualista produce in termini di evento in chi vi prende parte non è immediatamente riscontrabile, poiché può coincidere, per quanto “intenso”, con un fenomeno psichico ‘interno’, o con qualcosa di talmente inedito e singolare da non poter essere categorizzato ricorrendo a standard già esistenti. Si tratta dunque di dedurlo dal comportamento di chi ne venga intercettato. In altre parole, evento è il risultato soggettivo di un accadere: ciò che emerge in forma di sintomo in chi è sottoposto a uno stimolo specifico, programmato e provocato da un artista.
Credo che, per quanto eccessivamente contratte, queste considerazioni possano bastare per introdurre ai due elementi che, a mio parere, caratterizzano la mostra – bella, rigorosa e lungimirante – dedicata all’artista dalla Galleria Comunale di Arte Moderna e Contemporanea di Arezzo (Sergio Lombardo: una programmatica differenza, curata da Moira Chiavarini e Simone Zacchini).
Il primo è che non si tratta di esposizione che culmini in un catalogo, ma di un libro (gli Scritti teorici di Lombardo, pregevolmente edito da Magonza e curato da Zacchini medesimo) da cui, appunto con lineare inferenza programmatica, viene a generarsi una mostra. La dinamica eventualista si ripropone quindi non più solo nell’ambito della singola opera, ma come evento integrale: tutta la mostra, progettata ex libro, è il luogo dove i visitatori vengono eventualisticamente in contatto con ciò che in loro viene provocato dall’installazione delle opere. Le quali, dunque – ed è il secondo punto – son disposte e raggruppate proprio per agire coordinatamente in questo senso. I nessi – visuali, eventuali – sono sapientemente articolati nello spazio museale.
Si parte dai Monocromi che stabiliscono il punto di partenza, kenotico, dell’“astinenza espressiva” perorata da Lombardo: il gesto semanticamente troppo carico dell’arte deve abolirsi per lasciar spazio all’attività di completamento psichico-sensoriale di chi lo riceve: formula strutturale e nient’affatto emotiva per includere l’osservatore nell’atto di costituzione dell’opera, come accade col famoso Specchio Tachistoscopico con stimolazione a sognare: ironico onirismo indotto.
Si procede poi oltre, attraversando la calibrata corrispondenza tra il ‘tassellato’ di un Superquadro modulare ideato nel ’65 e disposto a pavimento (che anticipa i successivi Tiling a tessere aleatorie) e la nonsense shape che quasi a specchio lo sormonta. Questa realizzazione stocastica su algoritmo randomico, come poi i più recenti Quilting, è concepita da Lombardo in automatica purezza bianconera affinché lasci spazio e ‘cagioni’ il massimo numero di (inter)(re)azioni possibili. Ma già in questo passaggio intermedio transitorio tutto gioca con – e dunque rimanda a – quel che mi pare il Quilting cinematicamente più riuscito, forse perché inquadrato nel taglio spaziale che convoglia vista e esperienza nell’ambiente successivo. Dove compaiono altre opere, stavolta dai vivi cromatismi in costruzione, ma comunque analiticamente concepite coi quattro metodi fondamentali perfezionati dall’artista: “il metodo SAT (che indica una saturazione del piano), il metodo TAN (il cui nome deriva dal gioco cinese del Tangram), il metodo RAN (che sta per ‘pioggia di punti’) e il metodo LAB (ovvero ‘labirinto stocastico’)” (così l’inappuntabile Zacchini).
Siamo certo agli antipodi della concezione classica secondo cui bello è “ciò che piace universalmente senza concetto”. Quello di Lombardo è una sorta di platonismo psicologico applicato, numerologico, dianoetico. Dagli algoritmi agli stati mentali da essi indotti. Qualcuno potrà forse rimanere restio, ma non negarne la grandezza.
Photo credits: Alessandro Sarteanesi