Dalla notte dell’hotel Champagne sono passati cinque anni esatti. Luca Palamara, il volto simbolo dello scandalo delle correnti, è stato radiato dalla magistratura in via definitiva nell’estate 2021; l’altro grande tessitore, Cosimo Ferri, ha invece scampato ogni conseguenza grazie allo scudo della Camera, che ha negato l’uso delle intercettazioni nei suoi confronti. Ma quella notte, tra l’8 e il 9 maggio 2019, non erano solo Palamara e Ferri a indirizzare la nomina del futuro procuratore di Roma col deputato Pd Luca Lotti (allora imputato proprio nella Capitale per il caso Consip). Nella saletta dell’albergo romano c’erano anche cinque consiglieri togati dello scorso Csm, che di lì a poco avrebbero dovuto votare proprio quella nomina: Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli, Gianluigi Morlini, Luigi Spina e Antonio Lepre. Per la vicenda, a settembre 2021, tutti e cinque erano stati condannati in sede disciplinare a lunghe sospensioni dalle funzioni e dallo stipendio: nove mesi per Cartoni e Criscuoli, un anno e mezzo per Lepre, Morlini e Spina. Anche se sembra assurdo, però, escluso Spina (che ha lasciato l’ordine giudiziario a dicembre) finora tutti facevano ancora i magistrati, nello specifico i giudici: Cartoni a Roma, Criscuoli a Palermo, Morlini a Bologna e Lepre a Napoli. Soltanto martedì, rigettando i loro ricorsi, le Sezioni unite della Corte di Cassazione hanno reso esecutive le sanzioni ai co-protagonisti del Palamara-gate, che quindi ora dovranno togliersi la toga (seppur a tempo determinato).

Le impugnazioni dei cinque togati si basavano su un argomento fondamentale: la presunta inutilizzabilità delle intercettazioni dell’hotel Champagne nel procedimento disciplinare nei loro confronti. Quei nastri, infatti, erano stati registrati grazie a un trojan (il software che trasforma i telefoni in microspie) installato dagli investigatori nel cellulare di Palamara, in quel momento indagato per corruzione a Perugia (poi patteggerà una condanna per traffico di influenze illecite). In base al codice di procedura penale, infatti, le intercettazioni disposte in un procedimento possono essere utilizzate in un procedimento diverso soltanto se si indaga per reati che prevedono l’arresto in flagranza, mentre in questo caso di reati non ce n’erano proprio. Le Sezioni unite, però, hanno confermato la decisione della Sezione disciplinare, ribadendo il principio già espresso secondo cui “le intercettazioni operate nell’ambito di un procedimento penale sono pienamente utilizzabili nel procedimento disciplinare a carico del magistrato, poiché i limiti” dettati dal codice “si applicano esclusivamente in ambito penale“. E a differenza di quanto sostenuto dalle difese degli incolpati, questa limitazione “non contrasta con il diritto costituzionale, convenzionale” e dell’Unione europea.

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