Dopo quasi cinquant’anni Jenufa di Leoš Janáček torna al Teatro dell’Opera e posso serenamente dire che si tratta di uno degli spettacoli più belli degli ultimi anni. Un’opera non facile, attraversata dalle tensioni mitteleuropee di primo Novecento, composta in quasi dieci anni (1894-1903), che ricevette una tiepida accoglienza iniziale alla prima (1904) e divenne solo successivamente oggetto di culto quasi casualmente: una decina d’anni dopo un passante fu colpito da una melodia cantata da una voce femminile in campagna, chiese alla donna da dove fosse tratta e, conoscendo solo il nome dell’opera, scrisse entusiasta al direttore del Teatro Nazionale di Praga, che decise di riportarla, trionfalmente, in scena nel 1916.
Come riportato nel sempre ben curato libretto di scena Sconfinamenti, Antonio Pappano sostiene che Jenufa “combina il tardo romanticismo, l’aspetto folcloristico e l’imminente modernismo”. Questa natura composita rende l’opera un unicum nel panorama del periodo e ha ragione il valente direttore Juraj Valčuha nel dire che quest’opera “impone una sorta di percorso di avvicinamento e conoscenza graduale, ma vale la pena affrontarlo perché il fascino del racconto sarà ripagare lo sforzo compiuto”.
Un’opera ispirata da un assunto teorico antitetico all’atmosfera del Decadentismo estetizzante di Oscar Wilde: “La verità, in primo luogo, la verità, non la bellezza”. Eppure, nonostante il peso della denuncia sociale che permea l’opera, la conoscenza delle melodie popolari da parte dell’autore (chiave della sua riscoperta) riesce a rendere i tre atti, di una vicenda a tratti atroce, assolutamente godibili dal punto di vista estetico.
Sono stato spesso severo con le rappresentazioni “moderne”, ma in questo caso ho trovato convincenti tutte le scelte di regia di Claus Guth; forse, proprio perché si parla di un capolavoro “modernista”, gli apporti originali, sobri ma efficaci, sono apparsi calibrati con intelligenza e, soprattutto, con un criterio coerente. Non è un caso che proprio questa sua Jenufa abbia vinto alla Royal Opera House nel 2021 il premio come miglior produzione operistica agli Olivier Awards.
Un esempio: nella scena, tremenda e straziante, in cui la matrigna Kostelnička progressivamente viene assalita dall’orribile pensiero di uccidere il neonato, e quindi evitare lo scandalo che avrebbe rovinato la vita dell’amata figliastra, per tutto il tempo appare incedere sullo sfondo una figura dalla mostruosa testa di corvo.
Scelta semplice, quasi didascalica, eppure potente: non distrae, sottolinea in maniera efficace ciò che il crescendo musicale sta per disvelare. Valga lo stesso per la casa-prigione kafkiana che occulta la protagonista dopo il parto segreto: less is more, scelte essenziali, dritte al punto, che consentono al talento degli interpreti di emergere, che lasciano che sia la musica a raccontare il dramma.
Allo stesso tempo, con un contrasto creativo pertinente, sono stupende le scene di danza corali, coloratissime e gioiose, omaggio al folklore moravo di cui Janáček era un appassionato studioso.
La dimostrazione che si può innovare senza stravolgere, reinterpretare liberamente ma con rispetto e consapevolezza. Il modo migliore per rappresentare il dualismo dell’opera in un ritmo paradossale, come i colpi del destino che rovesciano gli equilibri interiori dei protagonisti.
Una crudezza che potrebbe apparire problematica agli esponenti più stolti dell’ipersensibilità contemporanea: il brillante e romantico Steva è in realtà un vile egoista; il violento e invidioso Laca che sfregia la protagonista alla fine si rivelerà uno sposo tenero, coraggioso e leale; un orribile atto come l’infanticidio viene compiuto per un eccesso di amore materno, travolto dalle pressioni sociali che induce alla follia; la protagonista appare prima fiera e ambita, poi vittima fragile e impotente e alla fine donna libera e capace di perdono.
Commoventi le interpretazioni (da brividi la lucida follia di Karita Mattila, sempre impagabile Manuela Custer), ma su tutte dichiaro che rimarrà a lungo impressa nella nostra memoria la dignità regale, pur nell’umiltà della condizione sociale della protagonista, di Cornelia Beskow: oltre all’interpretazione canora trascinante, il soprano svedese ha manifestato “la potenza della lirica/dove ogni dramma è un falso” cantata in versi popolari da Lucio Dalla, incarnando, con la sua presenza scenica, la maestà archetipica della bellezza femminile. Una rappresentazione magnifica nella sua, apparente, semplicità.