Longform tratto dal numero 78 di Fq MillenniuM
Longform tratto dal numero 78 di Fq MillenniuM in edicola
La pacifista italiana faccia a faccia con un 50enne di Monaco di Baviera che lavora nell’industria bellica. Il commercialista di Padova in contatto via Whatsapp con la signora di Brighton che ha votato Brexit e lo rinnega solo perché “non è cambiato niente”. Poi Valentina, libera professionista, che parla via mail con Tim, universitario tedesco: lui vuole sapere come fosse la vita prima dell’Euro e lei scrive lettere virtuali per raccontare come è cambiato il suo mondo. Sembrano i personaggi inventati di un romanzo, sono le coppie di discussione nate grazie a un progetto a metà tra l’utopico e il vintage: prendere persone che la pensano all’opposto e proporre loro una conversazione online. Nell’Europa ai tempi della polarizzazione estrema, quando su ogni tema ci schieriamo come allo stadio, abbiamo seguito i partecipanti dell’esperimento Europe Talks. A inventarlo è stato il giornale tedesco Die Zeit: era il 2017, Trump aveva da poco vinto negli Stati Uniti senza che quasi nessuno lo avesse previsto, e si sono chiesti cosa avessero in testa i lettori. Il problema era ed è solo uno: uscire dalla bolla, quella che unisce chi la pensa allo stesso modo e illude che al di fuori non ci sia altro. La trappola esiste da sempre, ma ora i social network ne amplificano l’effetto. È nata così quella che potremmo chiamare la app di incontri della politica: hanno aderito più di 15 mila tedeschi e da quel momento, ogni anno, il progetto viene fatto su scala europea. Il funzionamento è semplice: rispondi a 7 domande divisive (su guerra, diritti e ambiente), spieghi cosa ti fa paura e cosa ti rende felice, l’algoritmo ti assegna una persona che, almeno sulla carta, ha idee diverse dalle tue. Poi, da soli, vi incontrate online per una chiacchierata. L’obiettivo? Non ce n’è uno solo. E di sicuro non è quello di cambiare o far cambiare opinione.
Guerre – Il Covid, la guerra in Ucraina, il conflitto a Gaza. Gli ultimi avvenimenti hanno reso impossibile tenere l’attualità fuori dalle nostre vite. Teresa Pennone lo dice non appena risponde al telefono: «Questi argomenti ci stanno dividendo in maniera terribile. Io ho un amico con cui non parlo più». Per un istante, le si incrina la voce. «Sono anche volontaria di Emergency, è chiaro quello che penso. Accettare la guerra per me è fuori da ogni logica. Forse confrontarsi con un estraneo è più semplice». Pensionata che vive a Milano, si è trovata a dialogare con Jan-Peter Munk, di qualche anno più giovane e un impiego nell’aeronautica. «Gliel’ho chiesto subito: “Ma non ti disturba fare quel lavoro?”. Sostiene di no, perché è difesa. Io per Leonardo in Italia non lavorerei mai». Teresa e Jan-Peter si sono ascoltati, ma capiti non tanto. Finché hanno considerato la possibilità che nasca un esercito europeo, qualche punto di incontro c’è stato: si possono risparmiare soldi, c’è più coordinamento. Poi però, sono passati a Gaza. «Lì siamo diventati più emozionali», osserva il tedesco. «La discussione è un po’ degenerata», aggiunge lei. «Ma sempre con toni civili». Le accuse a Israele da una parte, le responsabilità di Hamas dall’altra. Di mediazioni non ce ne se sono state. Eppure, tutti e due sostengono che lo rifarebbero. «Le persone vanno sui social network a cercare conferme di quello che pensano. A me fa paura il meccanismo e voglio starne fuori», dice Jan-Peter. «Mi preoccupa la frammentazione della società, i partiti populisti a destra, ma anche le risposte della sinistra. E poi un’Unione europea che ha perso la capacità di strategia dopo quarant’anni anni di pace». La voglia di avere uno spazio dove confrontarsi ha tenuto la coppia dalle idee opposte incollata allo schermo. E dopo quell’ora e mezza di scambio, Teresa è ancora più convinta che parlarsi sia l’unica soluzione: «Le persone comuni non hanno più occasioni per esprimersi. Anche sulla possibilità di riarmare l’Ucraina, a me non sembra che siamo tutti d’accordo. Ma la gente non la ascolta più nessuno».
Migranti – Su certi temi i politici hanno costruito carriere, ma sapere cosa ne pensano gli elettori è diventato sempre più difficile. Francesca Barnes risponde da Brighton, nel Sud di una Gran Bretagna ormai fuori dall’Ue: «Certo che ho votato per la Brexit». 73 anni, ex hostess e poi agente di polizia, ha due nipoti che sono al centro di tutte le sue preoccupazioni. «Siamo stati ingannati. Abbiamo votato perché finisse l’immigrazione clandestina e non è cambiato niente. Ci hanno liberato dall’Ue, ma non dagli immigrati». Quando le chiedono delle sue paure, mette in cima a tutto «gli uomini che vengono da Paesi che non hanno rispetto della nostra religione, del nostro stile di vita e delle donne». Di questo ha iniziato a parlare con Stefano, commercialista di Padova. «Ci stiamo sentendo su Whatsapp», spiega lui, «così è più facile e si evitano malintesi». Francesca lo ha definito un «gentleman». «Sui migranti», continua Stefano, «io ho posizioni diverse. È chiaro che se due genitori portano un figlio su un barcone è perché l’alternativa è peggiore». Ma prima di tutto i due hanno discusso di religione: «Lei sostiene che non si può comunicare con i fanatici. Allora le ho chiesto: quanto è importante per te la religione? Ha detto poco. Forse anche perché sta bene, mentre chi ha condizioni di vita disperate avrà per forza un altro approccio. Su questo credo di averla fatta riflettere». Stefano, come nota Francesca, è molto attento a cercare di capire gli altri. «Voglio confrontarmi con qualcuno che non fa parte della mia cerchia, i miei amici lo so già cosa pensano. Ormai la maggior parte dei politici dà messaggi divisivi e a risentirne è la solidarietà tra le persone». Anche Francesca cercava un confronto: «Di solito non posso confidarmi con nessuno. Mio marito pensa che passo per razzista. Le mie figlie lo stesso. Con gli amici litigo. Eppure questi colloqui per me sono educativi».
Ma l’Europa dovrebbe accettare più migranti? È una delle domande sottoposte a chi si è iscritto al progetto. Giorgio Airoldi, ingegnere 55enne tra Madrid e Milano, si è confrontato con Michael, piccolo imprenditore tedesco. «Lui ha una visione più conservatrice», dice l’italiano del compagno appena conosciuto. «Non vuole che l’Ue accolga nuovi rifugiati». Mentre «io penso non si debba rifiutare a priori. Però demonizzare l’altro e dire “sei un fascista” non serve a niente. Io voglio capire. Lui ha un’azienda da tre generazioni, nella sua zona l’arrivo di migranti può aver creato dei disagi. Non l’ho convinto, non ho cambiato idea, ma ho capito di più la sua posizione». Giorgio, come tutti, se la prende con l’impotenza dei cittadini: «La polarizzazione non deve accadere per forza. Ora sembra tutto una partita di calcio, dove devi scegliere una squadra. Ma la democrazia è trovare un punto intermedio».
Lettere – Sono decine le videochiamate tra sconosciuti che sono già state organizzate. Ma c’è anche chi ha preferito scriversi. Valentina Nardecchia, libera professionista di Roma, ha iniziato una corrispondenza con Tim, tutor universitario tedesco di 21 anni. «Ha l’età di mia figlia», è il suo primo commento. «Ma qui diciamo “madre di una, madre di tutte”. E per questo gli rispondo come se fosse un po’ mio figlio. Lui mi chiede se non sono arrabbiata con i governi che non fanno abbastanza per il cambiamento climatico. Come dargli torto. E poi è molto curioso di sapere com’era prima dell’euro». Valentina, nelle pause tra il lavoro e gli impegni di ogni giorno, scrive lunghe email per raccontare cosa è cambiato nel suo mondo: «Gli dico dei viaggi. Di com’era prima muoversi alle frontiere. Ma anche della difficoltà che c’erano per lavorare fuori dal tuo Paese. Gli parlo di come mi sento europea, anche se finora abbiamo declinato solo l’Europa dell’economia e non quella delle persone». Tim si è presentato come un ragazzo conservatore, ma che si colloca a sinistra. «La verità è che poi le differenze spariscono», chiude Valentina. «Quando parli con le persone, ti rendi conto che tutti vogliamo le stesse cose e a essere diverso è solo il modo per arrivarci. Lui è molto scettico che i politici possano considerare davvero le nuove generazioni. Io gli dico che ognuno può fare qualcosa. Perché è quello che dico sempre a mia figlia. E spero sia così».
Si scrivono anche Roberto Buccola, psicoterapeuta 60enne di Palermo, e Martin, suo coetaneo tedesco che fa il manager. «Mi ha raccontato che vive a pochi chilometri da dove prima c’era il confine con la Germania dell’Est. Mi affascina l’idea di un confine che continua a vivere dentro le persone». Un po’ come per gli Stati dell’Unione europea: «Penso che evocare un melting pot dove tutti siamo più o meno uguali rischia di essere un grande malinteso. Siamo cittadini europei perché abbiamo un substrato comune, ma abbiamo anche tante differenze». Una delle prossime conversazioni sarà sulla guerra. «Martin mi ha detto subito che in gioventù ha fatto il paracadutista per l’esercito. Ho sentito che forse abbiamo un punto di vista diverso. Io sicuramente sono preoccupato. Anche in studio, raccolgo sempre di più sogni di guerra dei pazienti». Martin, intanto, dice che «si stanno scambiando idee per un’Europa di pace» e che, anche alla fine dell’esperimento, continueranno a scriversi.
Giovani – L’adesione al progetto finora è stata alta. Nel primo mese circa 700 persone si sono iscritte tramite ilfattoquotidiano.it, quasi 4 mila in tutta Europa: la maggior parte sono uomini over cinquanta, ma hanno aderito anche i giovani. Kirsten Scheibke ha 18 anni, nata vicino a Colonia, nel Nord della Germania, ora è in Argentina: «Sono qui per un progetto di volontariato finanziato dal governo. Lavoro in un parco naturale alle porte di Buenos Aires». Si è confrontata con Giovanni, 60enne caregiver di Verona. «Abbiamo due punti di vista lontani, ma per me è stato molto di ispirazione. Io credo che sia necessario ci sia un dialogo tra le generazioni». Kirsten lo ha scritto in stampatello nella presentazione: la paura più grande è il cambiamento climatico. «So che per i più anziani è diverso, per noi è una cosa che dobbiamo affrontare. Non abbiamo scelta. Per questo voglio parlarne». È solo di un anno più grande Filippo Floccari, studente di Scienze Politiche a Roma 3. Per lui l’esperimento non è stato molto riuscito. «Sono deluso. Mi hanno accoppiato con un 60enne austriaco che mi è sembrato molto nostalgico. Faceva discorsi sull’importanza degli Stati nazionali. Ha fatto un minestrone e io mi sono dissociato subito». Filippo di sé dice che può sorprendere il suo interesse per l’opinione degli altri: «In questo caso c’era un muro dall’altra parte. Non voglio passare per bigotto, ma è stata una conversazione pesante. L’ho fatto parlare, però mi sono innervosito quando ha detto che in Italia siamo razzisti con quelli del Sud. Mi ha dato fastidio come lo ha detto». Filippo si è stizzito anche quando il suo compagno di chiacchierata ha criticato l’ecologismo e detto che lui “esce in macchina apposta per inquinare”. A quel punto, «avrei dovuto attaccare. Ma prima di tutto per me viene l’educazione». Un fallimento: «Speravo di trovare qualcuno della mia età».
Rabbia – Passare da una conversazione all’altra è un po’ come sintonizzarsi su frequenze di radio dimenticate, captare le voci di chi, altrimenti, non riesce a farsi sentire. Nikos fa il graphic designer, ha 30 anni e risponde da uno degli Stati più in difficoltà dell’Ue: la Grecia. «Ho discusso con una mia coetanea italiana, Isabella. E abbiamo punti di vista diversi. Per esempio sui migranti: qui in strutture dove potrebbero stare 2 mila persone, ne mettono 10 mila. Li trattano come animali». Sono campi pagati con i fondi Ue. «Capisco l’importanza di accogliere, ma non così. Tutti gli Stati devono dare il loro contributo». Il giudizio di Nikos su Bruxelles è molto duro: «Dopo la crisi del 2015, ci è stato imposto un piano che ha reso i poveri sempre più poveri. Abbiamo svenduto tutto: porti, aeroporti, autostrade. Io non sono per la Grexit: penso che l’Ue sia una bella idea, ma per il momento è solo un’idea. Non c’è unione. Da noi la situazione è così grave che nemmeno parlerei di polarizzazione: le persone non sanno come arrivare alla fine del mese e non pensano ai dibattiti, ci hanno rinunciato. Come possiamo preoccuparci della guerra se non abbiamo da mangiare?». Nikos andrà a votare: «Non abbiamo scelta. Forse è il mio spirito da artista che mi spinge a fare un po’ di rumore». E chiude: «Isabella ad alcune cose che ho detto non aveva mai pensato».
A chilometri di distanza, eppure sulla stessa frequenza, c’è Alessandra, docente universitaria ad Amsterdam che si occupa di logica matematica e intelligenza artificiale. «Io ho vissuto il sogno europeo fino a quando ho visto il modo in cui l’Ue ha trattato la Grecia. Quella è stata per me una disillusione atroce». 51 anni, partita da Catania, ha ormai trascorso più tempo all’estero che in Italia. E lei, ogni giorno immersa in una dimensione europea, si dice preoccupata: «Lo sapete che qui le università stanno rimettendo i corsi in olandese? Si adeguano al momento. Manca una visione comune: siamo essenzialmente in un condominio di amministratori che pensano solo al soldo». Alessandra ha chiacchierato con Zuzana, sua coetanea, fotografa slovacca e poi tedesca di adozione, che ora vive in Portogallo. «Ci siamo trovate d’accordo praticamente su tutto ed è stato un peccato perché volevamo confronti diversi. Ma abbiamo già deciso che ci incontreremo». Un punto su cui hanno discusso però c’è stato: «Lei era molto più scoraggiata. Non vuole votare. Io invece coltivo la mia incazzatura che mi dà la spinta per partecipare. Perché l’Europa, per quanto ci abbia fatto schifo, è la cosa migliore che abbiamo». E Zuzana? «Secondo me ci penserà».
Paure – Europe Talks è ancora in corso e sta dando risultati molto diversi. C’è chi si è trovato in difficoltà per la distanza delle idee, chi sperava in discussioni più accese e chi ha iniziato un’amicizia. Proprio sugli effetti delle discussioni si sono concentrati due ricercatori, Adrian Blattner di Harvard e Martin Koenen di Stanford: a luglio 2023 hanno pubblicato uno studio sul primo esperimento tedesco, dove sostengono che i partecipanti alla fine hanno dimostrato “una riduzione significativa della polarizzazione”. L’esposizione a chi la pensa diversamente, hanno scritto, non fa cambiare idea, ma “aumenta la tolleranza”. Del resto, che ci sia un terreno comune di discussione, lo rivelano già gli stessi questionari dei partecipanti. Alla domanda cosa ti spaventa del futuro, le risposte sono tutte identiche: “La guerra”, hanno scritto a decine. E poi: “Un conflitto nucleare”, “il cambiamento climatico”, “la malattia”, “la fine del welfare”, “l’inquinamento”. Sempre le stesse paure, associate a una sensazione che spaventa ancora di più: “L’incapacità della classe politica”. Incapace, prima di tutto, di ascoltare le voci di chi dovrebbe governare.