Durante un’intervista risalente a una ventina di anni fa, Nadežda Radulova disse che per lei la poesia si stava sempre più trasformando in un modo per superare le distanze o per colmarle di segni. In Malkijat svjat, golemijat svjat (Il piccolo mondo, il grande mondo, 2020), da cui sono tratti i testi in traduzione, sembra che l’autrice abbia in tenuto fede a questo messaggio, dandogli corpo e affinandolo: troveremo che il presente e il passato, l’età adulta e l’infanzia, riescono quasi a toccarsi, poi si riallontanano e si dileguano l’uno nell’altro. A restare è il bagliore dei sogni, dei desideri mancati, dell’essere ciò che si è stati e che, inevitabilmente, si continua a cercare. L’incessante ricerca animata da un’insopprimibile vitalità e, d’altra parte, dal disincanto costituisce la cifra e, forse, è il tratto più potente della poesia di questa autrice contemporanea.
Giglio di mare
La mancanza d’acqua non ha inciso sul
grazioso fiore, bianco turgido, umido
sotto il sole che secca e crema.
Ma il dolore è sceso giù,
dal nervo lombare si è
insinuato nel fusto e
le foglie ha contratto in un astioso
gesto verso
la corona. Mia nonna
in certi momenti,
anche se di rado,
si rattrappiva,
i suoi rami si torcevano,
si gonfiavano gli inariditi
aculei, in qualche punto
si rompeva la membrana
del cloroplasto e
si scoprivano
le macchie pigmentose. I capelli
li aveva bianchi, verso la fine
sottili
ragnatele
di neve
a marzo.
A volte, viste da lontano,
le dune si screziano di bianco,
si sbrecca il mare, emette un grido
porta via i gigli, nella sabbia
restano i denti,
piccole perle
dopo una manciata
di polvere
solare.
Non volevo stare sull’altalena –
perché volevo essere l’altalena e
fare il giro completo, a 360 gradi. Ricordo
ancora il colpo in fronte, il mondo
rigirato, le stelle sotto-sopra-
sopra-sotto, i mozziconi schiacciati che bucavano
il cielo, il verde scrostato del bungalow e come
l’odore delle salsicce e delle patate fritte
s’impresse nel mio stomaco per ore, come
la mia pelle di bambina cominciò a odorare di melone marcio, come
ogni sera febbre a 37,5, come stetti per mesi senza tv,
senza pianoforte, libri, elastico, badminton, come
tutti pensavano che fosse stato il colpo, l’altalena, come
nessuno capì che avevo capito che c’era una bugia, che mi avevano
fatto credere di essere, mentre sull’altalena… – allora
fu chiaro – molto triste, ma
del tutto chiaro, che non potevo più
restare dentro, che non
dovevo più, che io dovevo
completare il giro, e tornare là dove il colpo, dove
tutti i colpi non hanno ancora o mai
colpito, e restare in quell’attimo prima di –
e magari completare
il giro, senza colpire
nessuno, e senza mai –
So cosa facesti quella primavera
Scegliemmo il posto – accanto, il prato, né all’ombra,
né al sole.
Scegliemmo il momento – quando in casa
non c’era nessuno.
La lavammo e lavammo il vestito.
Asciugò presto –
quell’aprile fu insolitamente caldo.
Le chiudemmo gli occhi, se ne aprì uno.
Si spalancassero sotto terra, prenderebbe paura.
Lo appiccicammo con lo scotch.
La seppellimmo in una buca poco profonda. Piangemmo un pochino. Mangiammo
qualche caramella.
Dalla camera di mia nonna portammo
fiori finti, due rose, una margherita, un gladiolo.
Li disponemmo a forma di croce e poi in salotto
ce ne andammo a giocare.
E ad aspettare.
Presi com’erano dalle uova e dai dolci di pasqua,
i grandi non notarono il cambiamento.
O almeno, questi erano i piani –
nessuno doveva notare.
La mattina dopo mi svegliai prima di tutti
i complici
e subito corsi in giardino.
I fiori non c’erano,
la terra
smossa da poco,
e sul filo per stendere era appeso il vestito.
Della bambola russa Svetlana. Pulito,
steso al sole. La bambola la scoprii poco più tardi
nella camera di mia nonna, sulla sedia accanto alla finestra,
ancora nuda.
Qualcuno aveva rimosso lo scotch, ma l’occhio,
che prima non voleva chiudersi,
ora non si apriva più.
Più tardi la nonna barbugliò che aveva voluto
fare il bagno e lavare Svetlana perché:
Be’,…
perché a forza di giocarci l’avete insudiciata tutta!
Altro non disse.
Neppure io dissi altro.
Da allora
con quella bambola non gioco,
ma la tengo sott’occhio e di tanto in tanto
sollevo la palpebra di plastica,
quella che non vuole aprirsi.
Mi piego
e mi metto a guardare da vicino, guardo dentro,
fin quando lo scheletro dell’iris
comincia a muoversi e allunga le braccia, la sclera
scurisce,
e nel fondo di quel cielo autunnale grigio-azzurro
divampano leoni, albeggiano tigri.
Nadežda Radulova (Pazardžik, Bulgaria 1975) è autrice di otto libri di poesia, traduttrice letteraria dall’inglese, redattrice. Tra i suoi titoli principali sono da segnalare: Albi (2000), Kogato zaspjat (2015), Malkijat svjat, golemijat svjat (2020). Nel 2023 ha pubblicato il suo primo romanzo: Tuk živee Joži.