Tra i concorrenti finora apprezzabili si inseriscono almeno tre degli autori più attesi, taluni habitué della Croisette come il cinese Jia Zhangke e la britannica Andrea Arnold, altri recentemente assenti da Cannes ma dove hanno ricevuto consacrazioni eterne, come lo sceneggiatore e regista Paul Schrader
Se la delusione più cocente a oltre un terzo di svolgimento del concorso è arrivata dall’ultimo vincitore della Mostra di Venezia, Yorgos Lanthimos, la sorpresa più piacevolmente spiazzante è invece giunta dal francese Jacques Audiard, “migrato” in Messico dove ha confezionato uno straordinario e insolito dramedy musicale. Il cineasta già Palma d’oro nel 2015 per Dheepan (che è forse tra i suoi titoli meno riusciti…) ha infatti “creato” Emilia Perez in scrittura e regia senza appellarsi a un testo pre-esistente, come si fa normalmente coi musical che da spettacoli teatrali vengono adattati poi per lo schermo. E lo ha fatto imbastendo una mirabolante opera che si contamina di generi (commedia, melodramma, crime movie, thriller) la cui narrazione inframezza dialoghi a pezzi musicali per la partitura di Clément Ducol con l’ausilio per le canzoni della cantautrice francese Camille. Pubblico e critica in delirio (il film si offre di gusto a un bel premio pesante, probabilmente non la Palma avendola Audiard già vinta di recente..) davanti al racconto epico e intimo di Manitas, il boss di uno dei più potenti cartelli del narcotraffico messicano, che a un certo punto della vita decide di transitare nell’altro sesso, e diventare appunto Emilia Perez. La transizione è possibile grazie all’aiuto di Rita, una giovane e spregiudicata avvocata, che si mette a disposizione del gangster dietro lauta somma di denaro. Ciò che accade in seguito non è da raccontare, ovviamente, ma va sottolineato come e quanto Audiard sia stato in grado di elaborare questo racconto classico di struttura ma contemporaneo di tematiche nella maniera più originale e complessa possibili, tra scenografie spettacolari e sequenze ad alto livello di suspence. Gran merito va al cast ben selezionato, dove tra l’ottima Zoe Saldana nei panni di Rita e la ritrovata Selena Gomes nel ruolo della moglie di Manitas spicca l’eccezionale attrice trans spagnola Karla Sofía Gascón che interpreta Manitas/Emilia Perez.
Tra i concorrenti finora apprezzabili si inseriscono almeno tre degli autori più attesi, taluni habitué della Croisette come il cinese Jia Zhangke e la britannica Andrea Arnold, altri recentemente assenti da Cannes ma dove hanno ricevuto consacrazioni eterne, come lo sceneggiatore e regista Paul Schrader che nel 1976 vinse la Palma d’oro con Taxi Driver da lui sceneggiato e da Martin Scorsese reso immortale. Partendo proprio da Scharder, il suo Oh, Canada! si inserisce nella “stagione d’oro” di questi ultimi e assai prolifici anni del regista americano, capace dal 2017 di realizzare ben 4 film. Ispirato al romanzo Foregone di Russell Banks, è il racconto della “confessione” filmata di un acclamato documentarista ormai anziano e malato terminale che rivela segreti e bugie della sua vita. Davanti alla videocamera siede un eccellente Richard Gere – che rinnova qui il sodalizio con Schrader dopo che questi nel 1980 lo trasformò nell’iconico American Gigolo – accompagnato dalla sempre perfetta Uma Thurman nei panni della moglie e dall’astro nascente Jacob Elordi nei panni del protagonista versione giovane. Testo anche teorico sulle funzioni del dispositivo audiovisivo, Oh, Canada! è strutturato su una narrazione a mosaico su quattro livelli (un po’ alla Citizen Kane di Welles) e scomposta visivamente anche nell’uso di formati, supporti e cromatismi diversi, divenendo così un testo prismatico che rispecchia il funzionamento frammentato dei ricordi quando affastellati, interrotti dai rimossi o semplicemente semi-dimenticati.
Al bel testo di Schrader fa eco l’altrettanto valido del cinese Jia Zhangke, Caught by the tides, che pure rielabora la memoria della Cina degli ultimi 20 anni, attraverso un racconto quasi astratto dei cambiamenti del proprio territorio – lo Shanxi nel nord del Paese – filtrato dalla storia d’amor perduto tra i due protagonisti, Qiaoqiao, interpreta dall’iconica moglie di Zhangke, Zhao Tao, e Bin. Musicale, contaminata anch’esso di formati e supporti diversi, la nuova fatica del grande maestro cinese si avvale narrativamente di scene estrapolate di alcuni dei suoi film precedenti (da Still Life al documentario Dong tra i vari) che rivivono in un nuovo contesto drammaturgico a significare la potente immanenza del segno immaginifico, specie del cinema ai suoi più alti livelli.
Per ultimo di questa breve carrellata ma di certo non per valore, è stato infine bello ritrovare nel concorso cannense l’autrice inglese Andrea Arnold, qui affezionata concorrente da sempre dove ad ogni “giro” si è meritata un premio. Il suo quinto lungometraggio titolato Bird è il racconto di una 12enne della provincia più povera del Kent, quella che peraltro ha dato i natali alla cineasta. Proveniente da una famiglia disfunzionale al massimo livello, si ritrova a dover far difendere madre e fratellini dalla brutalità maschile. Sul proprio cammino incontra un misterioso personaggio chiamato Bird che l’aiuterà e proteggerà. Rinnovando il proprio sguardo impalpabile e straordinario sugli adolescenti, Arnold introduce nel suo tradizionale realismo sociale l’elemento della magia, rendendo il suo nuovo lavoro ancor più fiaba di formazione e liberazione.