Succede raramente che i ministri si diano un voto. Questo è accaduto con il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti che di recente si è autovalutato. In maniera assolutamente corretta e realista si è assegnato coraggiosamente come voto zero. Candidamente infatti ha dichiarato che dall’imposta prevista dal suo governo sugli extra profitti bancari il gettito è stato nullo, cioè non si è incassato nemmeno un euro.

Un caso veramente eccezionale, da Guinness dei primati. Perché si è verificato questo risultato miracoloso per le furbe banche italiane? Semplicemente è accaduto che assieme all’imposta il ministro ha previsto un perfetto meccanismo di elusione di cui le imprese bancarie nostrane, golose di profitti, hanno subito approfittato. Ne è uscito un fisco dadaista, irrazionale e comico, che introduce un’imposta a gettito zero.

La storia dell’imposta (mancata) sugli extra profitti bancari merita un riassunto perché illustra quanto la classe politica della destra-destra sia prigioniera degli interessi predatori delle corporazioni forti, in questo caso le banche. Una destra sostanzialmente corporativa, pur in assenza delle vere corporazioni del Ventennio.

Il tema degli extra profitti nasce prima con la pandemia e poi con la guerra. Questi eventi straordinari producono enormi spostamenti di ricchezza, a scapito dei lavoratori e a favore delle imprese, cioè del capitale. Nelle guerre, in particolare, questo è sempre successo e i governi hanno risposto con imposte straordinarie sugli extra profitti, anche per riparare i danni. Questi profitti extra infatti non derivano da aumenti di produttività o miglioramenti gestionali ma da circostante “favorevoli”, cioè dall’inflazione, e sono in termini economici una rendita parassitaria.

È successo così anche con le banche italiane che hanno cominciato a macinare profitti quando, per contrastare l’inflazione bellica, la Bce ha iniziato ad aumentare il tasso ufficiale di sconto nel 2022, portandolo dallo 0,2% al 4,5% attuale, un aumento del 2.200 per cento. Molti governi europei sono intervenuti per far incassare all’erario almeno una piccola parte di questi profitti dovuti semplicemente al regalo inaspettato della Bce. Il governo Draghi ha affrontato il problema introducendo una prima imposta sui profitti bancari. L’imposta veniva calcolata in maniera astrusa e il gettito incassato (un miliardo) è stato molto minore di quello previsto (dieci miliardi). Ma il governo Draghi era, come noto, di tipo tecnico e comunque qualcosina ha portato a casa.

Con il governo Meloni c’era da aspettarsi un cambio di passo anche perché i profitti eccezionali delle banche italiane cominciavano a emergere in maniera nitida. Poi la signora Meloni dai banchi dell’opposizione della destra sociale aveva sempre chiesto una drastica tassazione nei confronti dei profitti delle grandi banche. L’inizio sembrava promettente. La proposta governativa prevedeva un sostanzioso prelievo del 40% sui profitti extra, anche se solo per il 2023. Questo prelievo serviva a finanziare misure di sostegno ai cittadini, come paradossalmente il caro mutui. Il gettito previsto era la miseria di 3 miliardi, non proprio un esproprio quindi.

Di fronte a questo modestissimo intervento fiscale si sono subito levati gli scudi della lobby delle banche che hanno presentato scenari apocalittici: sfiducia nell’Italia, restrizioni del credito, perdita del valore delle azioni bancarie e così via. Anche la Bce si è unita al coro delle critiche.

La campagna mediatica degli amici delle banche per non pagare la piccola tassa ha avuto un successo clamoroso con il governo Meloni. Giorgetti si è piegato agli interessi delle banche ed è stata introdotta una norma ad hoc per permettere l’elusione fiscale totale. Alle banche è stato consentito di trasformare la tassa da pagare allo Stato in un rafforzamento del proprio capitale sociale. Ovviamente tutte hanno scelto di tenersi i soldi. Il danno per l’erario si è trasformato anche in una beffa perché le principali banche avevano già deciso autonomamente di portare una parte dei profitti a riserva. Ecco quindi che, tanto per dare qualche numero, Unicredit a fronte di profitti attorno ai 10 miliardi, ha deciso di non pagare la nuova tassa e di portare a riserve la somma di 1,1 miliardi di euro. Distribuirà poi generosamente 6,5 miliardi agli azionisti. Un aggiramento così completo, plateale e governativo dell’imposta è difficile da capire, anche se molto facile da prevedere.

Naturalmente Giorgetti non si è scusato di questo totale fallimento della sua imposta dadaista e nemmeno ha minimamente fatto autocritica come suo costume. È un ministro dalle spalle larghe, insensibile anche al senso del ridicolo della sua strambissima proposta di una tassa a elusione totale. Anche Giorgia (chiamiamola così), che dall’opposizione mostrava le unghie feline contro il capitale bancario, al governo invece ha cambiato strategia e gli artigli si sono trasformati in unghiette ben curate dall’estetista che procurano solo un piccolo graffio, e forse nemmeno quello. Draghi almeno aveva portato nelle casse dello Stato un miliardo, lei zero.

Qualche anno fa le banche italiane erano in difficoltà per i molti npl (crediti deteriorati). Ora l’inflazione e la Bce le hanno salvate e quasi santificate con l’avallo di una classe politica che evidentemente guarda più agli interessi del capitale finanziario che a quelli dei cittadini risparmiatori e debitori. Metamorfosi della destra sociale in destra del capitale, stavolta finanziario, come più volte abbiamo osservato.

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