Non solo la riduzione della circolazione dell’informazione, ma anche l’indebolimento di uno dei mezzi con cui la politica oggi comunica con i cittadini: la decisione di Instagram e della casa madre Meta di nascondere agli utenti contenuti politici provenienti da account che non si seguono, salvo che non lo si autorizzi, limita in modo pilatesco la diffusione di idee diverse dalle proprie, amplifica ancora di più le convinzioni di partenza degli utenti e di fatto esonera le piattaforme dalla responsabilità di ciò che circola, soprattutto in un momento delicato a livello geopolitico, tra guerre ed elezioni. Mariarosaria Taddeo, con cui ne parliamo, è professor of Digital Ethics and Defence Technology all’Oxford Internet Institute ed è anche Defense Science and Technology Fellow presso l’Alan Turing Institute di Londra. E partiamo dall’esposto bipartisan fatto all’Agcom ieri da 43 parlamentari che parlano, tra le altre cose, di “distorsione della concorrenza politica”.

Professoressa Taddeo, come impatta la decisione di Meta sulla circolazione dell’informazione e cosa pensa dell’esposto dei parlamentari italiani?

Gli effetti della decisione di Meta non sembrano favorire una migliore fruizione dell’informazione. La decisione arriva in risposta al regolamento europeo (Dsa) che impone ai tech provider, quindi alle piattaforme, trasparenza sui criteri con cui profilano e responsabilità sulla circolazione della disinformazione. Di fatto si lascia però, almeno per le informazioni politiche/sociali, la scelta all’utente senza supportare la verifica degli account o delle fonti di informazione. Credo che sia un approccio problematico. Inoltre, se ancora ce ne fosse bisogno, la decisione dei parlamentari evidenzia il ruolo cruciale delle piattaforme social nel dibattito politico e nell’orientamento al voto e nella comunicazione politica con i cittadini. E quindi rinforza la necessità di regolamentare i contenuti che circolano – o meglio le condotte degli utenti – in modo che possano coadiuvare un dibattito informato, pluralista. Una necessità a cui devono rispondere il legislatore e i tech providers.

Questi ultimi invece scelgono di lavarsene le mani e bloccano tutto alla fonte..

Fanno l’off loading, lo scarico, della responsabilità di verificare la veridicità delle fonti di informazione all’utente in un contesto in cui la quantità di inquinamento informativo, di fake news, è altissima, e continuerà ad essere altissima. È una decisione con la quale cercano di sottrarsi alle responsabilità su un servizio che offrono e credo anche che così facendo perdano un’opportunità. Nelle società digitali, i social network sono delle infrastrutture. Li usiamo per lavoro, ci informiamo, gestiamo la vista sociale, comunichiamo. Sono al pari di autostrade e scuole, dei servizi cruciali. Chi crea, gestisce e offre un’infrastruttura ha una responsabilità nel mantenerla funzionante e sicura. Prima ancora che un responsabilità rispetto agli investitori e ai dipendenti, nel caso dei social media credo che sia una responsabilità civica.

Anche perché gli online service provider sono ormai un po’ paragonabili agli editori: non solo gestiscono una piattaforma, ma ne veicolano anche informazioni, prendendo decisioni in proposito.

La disinformazione, le fake news sono un problema sistemico delle nostre società. Per questo motivo serve uno sforzo sistemico, che coinvolga tutti, anche governi, associazioni di categoria e utenti. Con questa decisione, invece, mi pare che oltretutto si sottraggano a possibili collaborazioni di questo tipo e perdano l’opportunità di lavorare con i legislatori per il bene comune, invece di subirne le decisioni.

E’ giusto pretendere che le notizie false scompaiono? Non è come pretendere che non ci siano incidenti in autostrada?

È più come aspettarsi che se qualcuno viaggia contromano intenzionalmente o cerca di sabotare un’autostrada, ci siano misure che garantiscano un intervento tempestivo e limitino i danni. Proprio perché le fake news sono un problema sistemico, non credo che si possa pensare di eliminarle, ma bisogna lavorare da più parti per contenerle. La decisione di Meta invece lascia correre liberamente le fake news che possono arrivare da account che l’utente segue, ma fa pure di tutt’erba un fascio. Ci possono essere account che veicolano contenuti legittimi e rilevanti che magari un utente non segue, magari perché non affine alle sue visioni, e di cui non avrà notizia. Questo riduce l’esposizione all’informazione ma anche alla diversità delle fonti di informazione (quindi non di disinformazione) a cui siamo esposti. In una democrazia sana, il dibattito pubblico si nutre del confronto tra posizioni legittime ma diverse.

Si limita l’esposizione al nuovo e alla diversità?

Questa misura rischia di accentuare le cosiddette ‘bolle sociali’ che sono l’anticamera della polarizzazione e dell’estremizzazione dei dibattiti pubblici. Senza contare che, data questa decisione, chi segue account che fanno circolare fake news ha pochissime chance di leggere o vedere un account che invece fa informazione correttamente. Insomma, rimanendo nella nostra similitudine, il digitale può essere l’autostrada che porta le democrazie liberali nel nuovo millennio o quella che le fa perdere. Spetta a tutti gli attori coinvolti assicurarsi che il secondo scenario non si verifichi.

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