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Assange, no estradizione: Alta Corte di Londra accorda un nuovo appello. “Non sono infondati i timori che negli Usa abbia processo ingiusto”

Si è fermata la macchina dell’estradizione negli Stati Uniti per Julian Assange. Almeno per il momento. Ad offrirgli una nuova chance è un collegio di seconda istanza dell’Alta Corte di Londra, che ha accordato al fondatore di Wikileaks la possibilità di presentare un nuovo ricorso dinanzi alla giustizia britannica, riconoscendo come non infondate le argomentazioni della difesa sul timore di un processo non giusto oltreoceano, dove rischia una condanna a 175 anni di carcere per aver diffuso documenti riservati del Pentagono e del Dipartimento di Stato contenenti rivelazioni imbarazzanti, inclusi crimini di guerra commessi fra Afghanistan e Iraq. Assange, che ha trascorso gli ultimi 5 anni nel penitenziario di massima sicurezza di Belmarsh, nella capitale britannica, non era presente in aula “per motivi di salute”, come ha spiegato il capo del collegio dei difensori, Edward Fitzgerald. Alla notizia, la folla che si era radunata all’esterno del tribunale per manifestare la sua contrarietà all’estradizione è scoppiata in urla di gioia.

Il verdetto dei giudici Victoria Sharp e Jeremy Johnson è arrivato dopo un primo spiraglio socchiuso il 26 marzo, quando gli stessi magistrati avevano accettato di ridiscutere l’istanza difensiva – rigettata in primo grado – ammettendo la possibilità di concedere un ulteriore appello laddove i rappresentati del governo americano non avessero fornito rassicurazioni “soddisfacenti” sul pieno rispetto del diritto dell’ex primula rossa australiana a “un giusto processo”. Cosa che evidentemente non è successa, nell’interpretazione del breve dispositivo con cui Sharp e Johnson – ascoltate ancora una volta le parti – hanno rimesso tutto in gioco: evitando di decretare come chiusa la vicenda di fronte alla giustizia britannica e di dare quindi l’ok a un’estradizione immediata o quasi.

Le argomentazioni sollevate dalla difesa riguardavano due punti cruciali per un processo equo (secondo gli standard minimi europei): il rischio di una condanna a morte (prevista se non altro sulla carta per il reato contestato ad Assange negli Usa di violazione dell’Espionage Act del 1917, inedito per un giornalista); e il timore di non poter invocare, in quanto cittadino australiano, il Primo Emendamento della Costituzione, baluardo della libertà d’espressione e informazione. Sul primo punto i legali di Washington hanno garantito che la pena capitale non sarebbe stata “chiesta dalla pubblica accusa” statunitense; ma è sul secondo che non sono riusciti a far breccia, limitandosi a rinviare vagamente alla futura pronuncia di una Corte d’oltre oceano il possibile riconoscimento (o meno) della tutela del “First Amendment”. Una “non rassicurazione“, tanto nelle parole dell’arringa finale dell’avvocato Fitzgerald quanto nelle valutazioni dei giudici. Valutazioni che allontanano lo spettro dell’estradizione, ma che soprattutto offrono margini di tempo agli auspici di una vittoria giudiziaria conclusiva; o magari di una soluzione politica dell’odissea, se Joe Biden vorrà darvi seguito concreto prima delle elezioni di novembre. E dietro le quali Kristinn Hrafnsson, giornalista d’inchiesta islandese succeduto ad Assange in veste di direttore di WikiLeaks, intravvede “finalmente un primo barlume di speranza” in fondo al tunnel.

La decisone è stata accolta con sollievo dagli avvocati di Assange, che si sono abbracciati in aula tra loro, mentre reazioni analoghe contagiavano l’irriducibile compagna dell’ex primula rossa australiana, Stella Morris, e il padre, usciti a dare l’annuncio a decine di sostenitori, politici e attivisti dei diritti umani radunati fuori dal palazzo di giustizia. Julian ha invece ricevuto la notizia in cella, a Belmarsh, dove è rinchiuso da oltre cinque anni e da dove non è potuto uscire nemmeno per l’udienza odierna, prostrato – a quanto è stato riferito – da una condizione di salute psico-fisica sempre più precaria, dopo aver trascorso ormai quasi tre lustri dei suoi 53 anni di vita scarsi da preda in gabbia o da detenuto. Ora l’artefice di WikiLeaks avrà “alcuni mesi” per preparare il nuovo procedimento, precisa Bbc. Anche se, almeno per il momento, è destinato a rimanere in custodia cautelare.

I giudici hanno “preso la decisione giusta”, ha dichiarato Stella. “Come famiglia siamo sollevati, ma fino a quando si potrà andare avanti così? Gli Stati Uniti dovrebbero rinunciare subito al caso. È il momento di farlo. Abbandonare questo vergognoso attacco ai giornalisti, alla stampa e al pubblico che va avanti da 14 anni. Questo caso è vergognoso, e sta facendo pagare un tributo enorme a Julian. L’amministrazione Biden avrebbe dovuto abbandonarlo fin dal primo giorno, ma ora è il momento giusto per farlo. Quindi, per favore, coloro che negli Stati Uniti hanno il potere di prendere una decisione, per favore abbandonate questo caso ora. Non lasciate che questa cosa vada avanti ancora a lungo”.

“La verità e il giornalismo non sono un crimine – ha commentato Nicola Fratoianni, deputato di Alleanza Verdi e Sinistra -: rischiare 175 anni di carcere, dopo tutte le disavventure di questi anni, è un’assurdità solo per aver svelato le bugie di molti governi, a partire da quello statunitense, che hanno coperto crimini di guerra, menzogne, depistaggi”. “Se un giornalista libero fa il proprio mestiere, non può essere trattato da terrorista. Ora venga liberato e gli si permetta di poter preparare la sua difesa”. “Finalmente uno spiraglio concreto in questa battaglia tra libertà e censura, tra democrazia e repressione. Per il Movimento 5 Stelle la libertà dell’informazione è un diritto e mai un crimine: per questo vogliamo Assange libero”, il commento dei parlamentari del Movimento 5 Stelle delle commissioni Esteri di Camera e Senato e la deputata Stefania Ascari che segue da vicino la vicenda.

Anche il presidente brasiliano, Luiz Inacio Lula da Silva, è tornato a invocare la libertà per Assange. “Avrebbe dovuto vincere il premio Pulitzer per aver rivelato i segreti dei potenti, invece è stato imprigionato per 5 anni in Inghilterra”, ha scritto Lula sui social. “Condannato al silenzio di tutta la stampa che dovrebbe difendere la sua libertà come parte della lotta per la libertà di espressione. Spero che la persecuzione contro Assange finisca e che ritorni al più presto possibile alla libertà che merita”, ha aggiunto.

La scorsa settimana un gruppo di parlamentari avevano chiesto l’apertura di un’inchiesta sul ruolo avuto nella vicenda dal Crown Prosecution Service (Cps), la pubblica autorità che persegue i casi penali in Inghilterra e nel Galles (qui la versione in inglese dell’articolo di Stefania Maurizi).