Il Giuseppe Sinigaglia di Como è “lo stadio più bello del mondo”. Lo definì così Gianni Brera, affascinato dalla posizione dell’impianto in prossimità del lago e dal contesto urbano razionalista. Un giudizio appartenente a un’altra epoca, e che oggi può essere ripreso solo per finalità elettorali, come scritto nel programma dell’attuale sindaco Alessandro Rapinese; oppure per spot turistico-calcistici alquanto scollegati dalla realtà, come quello realizzato da Thogden, youtuber inglese da 1.62 milioni di follower e specializzato in groundhoppin’. “Ci sono 5.736 stadi di calcio nel mondo”, ha raccontato in un video girato durante la sua trasferta sul Lario per Como-Palermo, “ciascuno con diversi design, colori e capienza come il Bancome Stadium di Gadalupe, in Messico, o l’Henningsvear Stadium in Norvegia. Ma per qualche ragione il mio preferito è nascosto tra le montagne del Nord Italia”.
In realtà il Sinigaglia è come un chiodo arrugginito piantato in una tela di grande valore artistico. Visto da lontano il chiodo si nota poco, così come una visuale aerea restituisce un luogo di indubbio fascino, tra l’hangar degli idrovolanti, le barche ormeggiate sul molo, il Tempio Voltiano e le ville sullo sfondo. Ma, una volta arrivati nei pressi dell’impianto, il biglietto da visita non è dei migliori, tra mura scrostate, cancelli arrugginiti, una curva posticcia fatta di tubolari metallici. Uno stadio fatiscente che cozza con qualsiasi concezione di Serie A, intesa come massimo livello del calcio italiano, e ancora di più con quella che è la mission della proprietà indonesiana dei fratelli Hartono, ossia un modello gestionale economicamente sostenibile di una società calcistica, integrato con il territorio e le realtà locali. Una proprietà che fino a oggi si è dimostrata seria e pienamente affidabile, essendo riuscita a dotare il Como di una struttura operativa e organizzativa da Serie A, ottenendo risultati notevoli sia sotto il profilo sportivo che sotto quello commerciale.
La questione stadio rappresenta una spina nel fianco per moltissime proprietà di club italiani, e per Como il Sinigaglia rappresenta l’unica, autentica minaccia che potrebbe, nel medio periodo, logorare la famiglia Hartono, zavorrando i loro progetti di crescita del club. Non è colpa loro l’aver ereditato un impianto di un’altra epoca, né una società dalla storia recente piuttosto travagliata, con tre fallimenti societari nel nuovo millennio che di certo non hanno potuto andare oltre – quando andava bene – una politica di rappezzamento provvisorio dello stadio. Lo stato attuale delle cose parla di una capienza di soli 7.500 spettatori, cifra lontana dai 12.000 richiesti come numero minimo dalla Serie A. Il primo obiettivo resta però quello di raggiungere i 10.500 posti necessari per ottenere una deroga annuale, subordinata alla presentazione di un piano con precise tempistiche di completamento dei lavori che deve essere consegnato entro il 4 giugno. Allo stesso tempo, il Como deve anche indicare l’eventuale stadio alternativo qualora i lavori per sistemare il Sinigaglia non dovessero terminare in tempo utile. La soluzione più comoda sarebbe Lugano, ma giocare in un altro paese è impraticabile.
Il primo grande nemico degli Hartono si chiama burocrazia, che quest’anno ha tenuto bloccati per settimane 1.000 posti aggiuntivi realizzati e pronti all’utilizzo. Il motivo derivava dalla mancanza di un permesso che nulla aveva a che fare con i posti, ma riguardava l’altezza di un faro vicino all’hangar su cui era necessario il consenso dell’ENAC (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile). Dal momento però che l’iter documentale non era stato separato, è stato necessario attendere tutti i nulla osta legati all’intero progetto. Il secondo riguarda l’oggettiva complessità del contesto, dal momento che sul Sinigaglia pende un vincolo architettonico. Da tempo infatti lo stadio figura nell’elenco dei beni storico-artistico-monumentali, e qualsiasi progetto di restyling radicale, o addirittura di demolizione e successiva ricostruzione, potrebbe andare incontro a una montagna di ostacoli.
Il paradosso è che la più ricca proprietà del calcio italiano appare per ora costretta, indubbiamente controvoglia, a proseguire con la politica delle “pezze”, che di certo non aiutano a rimuovere il menzionato chiodo dalla tela. L’idea rimane quella un’arena moderna multifunzionale (nello stesso complesso dello stadio è presente una piscina olimpionica, chiusa però da tempo per lavori), con spazi commerciali e locali per bere e mangiare, fruibile sette giorni su sette, tutto l’anno, e non solo quando gioca la prima squadra. Sono stati coinvolti tre studi di progettazione internazionali: Elevate, Legends e Img Stadia, occupatisi rispettivamente del restyling della Johan Cruijff Arena di Amsterdam, dei nuovi stadi di Tottenham Hotspur ed Everton, e della ristrutturazione del Santiago Bernabeu. La proposta ritenuta migliore verrà sottoposta al Comune, ultimo – ma non unico – interlocutore. Nel frattempo, la Como calcistica rimarrà una lussuosa villa che accoglierà i visitatori in locali cadenti, con muffa e ragnatele sulle pareti e l’intonaco che si sgretola. Perché idee e prospettive destinate sono destinate ad affrontare un lungo e indefinibile percorso tra provvisorietà, vincoli, lacci, procedure elefantiache e labirinti amministrativi. In poche parole: l’Italia come l’abbiamo sempre conosciuta.