Un ultimo passo per entrare nella storia. Non chiamatele più giovani promesse, piuttosto campioni senza anello. Un ossimoro provocatorio, ma per sederti al tavolo dei più grandi un titolo tra le mani (o meglio, sulle dita) devi necessariamente averlo. Sono pochi, pochissimi, i game changer senza successo nella storia. In questi playoff NBA, comunque andrà, uno tra Luka Dončić, Jayson Tatum, Anthony Edwards e Tyrese Haliburton si toglierà di dosso la narrativa di forte ma perdente, dominante ma non generazionale. Storie diverse, stesso obiettivo e destino. E intanto l’era LeBron-Curry (e gli altri) è davvero giunta al capolinea. Se la finale dello scorso anno tra Denver Nuggets e Miami Heat poteva essere semplice anomalia, questa stagione non è più un’eccezione con i Warriors fuori ai play-in e i veterani (ma mai vincenti) Clippers ancora una volta limitati dalla loro stessa natura che gli ha “sabotato” un’intera carriera. Ancora 8 (o alla peggio 14) partite per assumersi lo status di “nuovo volto NBA”.
Doncic, “il più giovane di sempre a…” ora vuole l’anello
La sua più grande fortuna di questa stagione è stata quella di avere al suo fianco Kyrie Irving. Un anno fa nessuno avrebbe creduto a queste parole (data la fama di complottista e con ideologie fuori dal normale). Eppure, anche Luka Doncic si è reso conto che vincere da solo è impossibile. Oltre i numeri e le innumerevoli triple doppie, il salto di maturità che sta finalmente arrivando: l’alibi degli arbitri, per ora, è ancora vivo. L’enorme – e per certi versi inesplorato – potenziale, però, adesso viene distribuito nel migliore dei modi. Talento fuori dal comune sin dall’esperienza europea con il Real Madrid. Per essere considerato il più grande Mavs di sempre le statistiche ci sono, manca solo quell’anello per superare il “dibattito” con Dirk Nowitzki. Doncic segna da sempre e diverte: ora vuole vincere.
Tatum, sarà (finalmente) il suo anno?
Ci era andato davvero molto vicino nel 2022, ma contro quello Steph Curry – a tratti ingiocabile, modalità MVP 2016 – era davvero difficile fare meglio di così. Per i Boston Celtics e Jayson Tatum è tempo di fare i conti con la realtà. Per diversi anni nel limbo tra l’essere una semplice buona squadra o un super team. Stesse critiche – come accaduto nel turno contro i Cleveland Cavaliers – che hanno colpito il numero 0. Eppure, per certi versi, quella sconfitta alle Finals ha responsabilizzato ancora di più Tatum. Un talento cristallino, da tenersi stretto e intorno a cui poter creare una squadra funzionale: quel momento è (forse) arrivato e al TD Garden non si aspetta altro che un successo, mancante ormai al 2008. L’ultimo anello vinto proprio contro il suo idolo di una vita, Kobe Bryant. Il grande sussulto di una carriera incompleta.
Edwards, la giovane sicurezza
Per attitudine non è secondo a nessuno in questa lega. Una sicurezza nei mezzi che non lo rende arrogante, piuttosto il contrario. E per l’NBA è uno spot meraviglioso: credere in sé stessi porta a spingersi oltre, proprio come i suoi Minnesota Timberwolves. Tra i tre, è il più giovane (ha appena 22 anni) ma è come se in NBA ci giocasse da dieci anni. Una leadership e un’aura contagiosa che ha colpito anche il suo idolo Kevin Durant, fuori al primo turno. Senza contare l’eliminazione dei Denver Nuggets di Nikola Jokic, i campioni in carica guidati dal miglior giocare della Lega.
L’underdog Haliburton
Di lui, rispetto agli altri tre, se ne parla forse poco solo perché meno spettacolare. Ma in uno sport di squadra essere efficaci è meglio di essere “belli da vedere”. Nella corsa al titolo gli Indiana Pacers sono i meno favoriti ma se sono tra le migliori 4 il merito è soprattutto suo. La storia di Tyrese Haliburton nel mondo NBA è di quelle che scaldano il cuore: entrato nella lega in punta di piedi negli “zimbelli” (all’epoca) Sacramento Kings, lo scambio che lo porta a Indiana è passato sotto i riflettori. Semplicemente, perché si parla di un giocatore all’apparenza normale che rende semplici giocate che non lo sono affatto. E forse il suo più grande pregio è proprio questo. Una meccanica di tiro che nessuno dovrebbe (o quanto meno vorrebbe) imitare ma un QI cestistico sopra la media. Il paradosso di un giocatore che si è costruito una credibilità senza eccessi.