“Luigi Mancuso si rivolgeva a Pittelli sapendo di poter contare sulla fitta rete di relazioni del difensore, politico navigato, onde consolidare il radicamento e la forte penetrazione della ‘ndrangheta in ogni settore della società civile: nella magistratura, nelle forze dell’ordine, nelle università, negli ospedali più rinomati, all’interno dei servizi segreti, nella politica, negli affari, nelle banche, così consentendo alla cosca Mancuso di rafforzare il proprio potere criminale”. Sono impietosi i passaggi della sentenza Rinascita-Scott con cui il Tribunale di Vibo Valentia ha motivato gli 11 anni di carcere inflitti in primo grado all’ex senatore di Forza Italia Giancarlo Pittelli, condannato per concorso esterno con la ‘ndrangheta.
Dopo anni di polemiche, il processo di primo grado ha dato ragione all’ex procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri (oggi a capo della Dda di Napoli) e ai suoi pm Antonio De Bernardo e Annamaria Frustaci i quali avevano chiesto 20 anni di carcere per l’ex parlamentare. A chi sosteneva che Pittelli nel 2019 era stato arrestato senza prove e “torturato” con 2 anni e mezzo di carcerazione preventiva (in parte ai domiciliari), il Tribunale di Vibo risponde a 5 anni dal maxi-blitz del 2019 chiarendo che “nel corso del dibattimento è emersa un’assoluta e sistematica messa a disposizione del Pittelli nei confronti dei membri del sodalizio criminale, soprattutto quando la richiesta di favori proveniva dal capo Luigi Mancuso”. Sono questi i passaggi più duri delle quasi 4mila pagine di sentenza in cui i giudici hanno ribadito più volte come l’avvocato Pittelli abbia fornito alla cosca Mancuso “un contributo causale determinante, travalicando nettamente i limiti dell’incarico professionale”.
In altre parole, Pittelli “si attivava ad ogni richiesta proveniente da Luigi Mancuso”. “Ciascuno nel suo ambito, potente e influente”, tra il politico e lo “zio Luigi”, il boss di Limbadi conosciuto con il soprannome di “Supremo”, c’era “una reale collusione”, un rapporto “di natura sinallagmatica” che “non si riduce ad una confidenzialità inusuale tra avvocato a capo-mafia, superando i limiti della mera contiguità compiacente, per risolversi nella ripetuta e concreta attivazione dell’imputato a beneficio della consorteria, alla quale fornisce uno specifico e consapevole contributo”. Un do ut des in sostanza: “Non sarà solo Pittelli a strumentalizzare la fama criminale del Mancuso per incrementare il suo prestigio professionale e per facilitare alcune speculazioni edilizie, quanto anche il Mancuso, soprattutto nella fase ascendente della sua parabola, ad avvalersi della rete di relazioni messagli a disposizione dal Pittelli (ora nelle vesti di legale, ora in quelle di politico, ora di vero e proprio faccendiere) per scalare le vette del potere economico-malavitoso, calabrese e non solo”.
Si legge sempre nella sentenza: “È indubbio, infatti, che il rapporto tra Giancarlo Pittelli e Luigi Mancuso ed i suoi uomini sia di natura sinallagmatica. Da una parte vi è una totale e sistematica messa a disposizione dell’avvocato nei confronti del capo, nonché la possibilità per la consorteria di risolvere le questioni dei sodali e dell’associazione attraverso il ricorso alle amicizie dell’imputato (l’ex senatore, ndr), dall’altra la contropartita per il Pittelli è di vario genere: dal conferimento di lucrosi incarichi alla possibilità di spendere il nome di Luigi Mancuso in ambienti sensibili a simili prospettazioni per conseguire benefici economici e imprenditoriali”.
Le dichiarazioni di alcuni pentiti, inoltre, “convergono su alcuni aspetti principali, ossia l’appartenenza di Giancarlo Pittelli alla cosiddetta ‘massoneria coperta’ e la ritenuta possibilità per l’imputato di incidere in maniera illecita sull’andamento dei procedimenti giudiziari, utilizzando il proprio particolare rapporto con il magistrato o ‘pagando’ periti o magistrati”. Non è un caso, infatti, che “dalla lettura complessiva e organica delle dichiarazioni emerge, la profonda fiducia riposta da diversi esponenti della criminalità organizzata in Pittelli, quale avvocato capace di intervenire a beneficio della consorteria, oltre e al di fuori del proprio mandato professionale, nel fondamentale campo della risoluzione, con metodi non leciti, delle problematiche giudiziarie, fattore di rischio nella vita dell’associazione mafiosa”.
Se le motivazioni della sentenza Rinascita-Scott sono feroci per Pittelli, sono altrettanto impietose per chi è stato assolto dall’accusa di associazione mafiosa. È il caso dell’ex consigliere regionale del Pd Pietro Giamborino. Secondo il Tribunale, la Dda non è riuscita a “ricostruire con la dovuta precisione” il patto tra la ‘ndrangheta e il politico calabrese che, però, – si legge nella sentenza – “fa parte verosimilmente di quella ‘zona grigia’, in cui i clan strizzano l’occhio alla politica e ne pretendono i favori dopo averla assecondata”.
Per il Tribunale, “dall’analisi degli elementi ricostruiti si evincono allarmanti commistioni del Giamborino con ambienti criminali che trascendono il legame parentale e personale tra l’imputato e i singoli esponenti delle cosche di ‘ndrangheta con cui viene di volta in volta a contatto. Se certamente è emerso, dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e da alcune captazioni, che Pietro Giamborino facesse parte del vecchio locale di Piscopio, ormai estinto e dal quale comunque il Giamborino prendeva le distanze negli anni 90 (quando iniziava la sua carriera politica), non può dirsi altrettanto, per l’adesione dell’imputato al nuovo locale fondato nel 2009, sul quale si concentra il capo di imputazione”. Da qui l’assoluzione dell’ex consigliere regionale condannato a un anno e mezzo di carcere solo per il traffico di influenze.
Chi è stato assolto completamente, invece, è l’ex sindaco di Pizzo Gianluca Callipo per il quale non è stata raggiunta “la soglia probatoria” necessaria a dimostrare il concorso esterno con la ’ndrangheta. Pure per l’ex renziano, però, è un’assoluzione a metà con tanto di censura morale: secondo i magistrati, infatti, ci sono elementi che “appaiono gravemente indizianti e denotano certamente una vicinanza del Callipo agli ambienti criminali. La prova all’esito dell’istruttoria dibattimentale appare insufficiente, non avendo consentito di individuare lo specifico e consapevole contributo causale che Callipo avrebbe fornito alla consorteria e residuando, conseguentemente, il dubbio che la condotta dell’imputato abbia effettivamente superato la soglia della mera contiguità compiacente per concretizzarsi in un concorso nel delitto penalmente rilevante”.