Non giriamoci intorno: pur con i suoi 237 milioni di dollari incassati su scala globale dei quali 2 milioni di euro in Italia, e a fronte di un budget da ben 160, Il Regno del Pianeta delle Scimmie della 20th Century Studios è un mezzo flop. Perché? Non aggiunge nulla di veramente emozionante e originale alla solida trilogia precedente. Dopo il funerale del vecchio e saggio Cesare, il protagonista addestrato nel primo film da James Franco, un grande salto temporale “di molte generazioni” ci porta in un futuro forestale e indefinito che inizia a somigliare al vecchio lavoro di Tim Burton, il suo peggiore peraltro. Quindi immaginiamone pure le conseguenze. Grandi effetti visivi e animazioni digitali sui primati li rivedremo tutti in nomination agli Oscar 2025, va bene, ma ci si accontenta di un villain forte pur se cupa meteora senza troppe speranze, e di un nuovo protagonista primate, Noah, l’ottimo Owen Teague (su cui si dovrebbe basare la nuova storyline) che da bravo adolescente subisce gli eventi, ma pure le perdite dei saggi, umani o scimmie che siano, memorie di culture contrastanti ma fondamentali alle prossime sceneggiature. Si conserva giusto il motto oramai classico Scimmie insieme forti, che riecheggia in un mondo di metropoli ridotte in ruderi e coperte da nuove foreste vergini. Inutile per ora guardare nostalgicamente al cielo per un astronauta Godot che chissà quando partirà.
L’incontro promettente sarebbe quello con l’umana Nova, Freya Allan, ma due ore e venti di rampicate, lotte, inseguimenti e un po’ troppa noia, più rari o inesistenti approfondimenti sui personaggi chiave ci offrono un prodotto meno succoso del previsto. Più simile a un puntatone di raccordo su una serie Disney+ che al nuovo tassello di una grande saga kolossal, questo Planet of the Apes lascia poche emozioni, perlopiù prevedibilissime, e tanti, troppi interrogativi fin troppo comodi per chi continuerà un franchise appena diventato fragile, o format. Fate voi. E poi fate caso a quanti elementi tra scene e costumi ricordano il nuovo mondo Star Wars targato Disney. E pensare che dopo l’opa dicevano che la Fox sarebbe rimasta la stessa e con lo stesso nome. Un mischione estetico francamente deludente. Insomma di idee giuste ce ne sono proprio poche. Forse il mantra mancante doveva essere Idee insieme forti.
Ha incassato invece 40 milioni di dollari globali Abigail, il nuovo summer horror di Universal. Solo 300mila euro in Italia, va bene, ma a fronte di un low budget da 28 milioni offre ampi margini di ritorno includendo tv e piattaforme. Si tratta di un horror sempliciotto, ma di buona confezione, che mette insieme una banda di furfanti assoldati singolarmente per sequestrare una giovanissima ballerina classica. Chiusi in questa grande casa gotica per 24 ore con la ragazzina scopriranno di essere invece la cena per una vampira molto giovanile. Prodotto estivo dal gusto splatter è calibrato su un pubblico adolescente e dalle poche pretese, avvalendosi però della presenza di due bei nomi. Giancarlo Esposito, ormai l’uomo giusto per le parti da malavitoso dandy, e Kevind Durand nei panni di un criminale grosso e stupidotto, ma nel Pianeta delle Scimmie fa il villain cupo di cui sopra.
Opera prima di Michele Fasano, un viaggio antropologico estatico e a tratti tragico ma pieno di speranza, Metamorphosis si rivela una gioia per gli occhi, una carezza sul cuore. Neanche sempre così dolce. Albania, Turchia, Siria, Israele sono alcune delle ambientazioni di questa fiaba tra uccelli migratori, cicatrici e meraviglie dei paesi sorvolati. Intrecci tra guerre e religioni, conversioni e genocidi. Il volo di stormi di uccelli in quest’animazione incantevole soffia leggero come vento di pace, come termometro della storia, del tempo umano, dei suoi errori e della sua spiritualità mai doma dai capricci del potere. Si popola di animali mitologici come i draghi e quotidiani come i gabbiani. Un’upupa a capo della migrazione dei volatili guida questa metafora continua sul tempo dell’oggi attraverso i riverberi acciuffati da tanti stili innestati con immagini di repertorio a tratteggiarne l’anima documentaristica, antropologica. La conferenza degli Uccelli di Farid al-Din‘Atta è il romanzo dal quale parte per un’idea di spiritualità globale, diversa ma sempre simile, contaminata, slegata dal pregiudizio. Su tutti svetta l’amore come legge e fede trasversale alle culture e alle latitudini fiorando gli insegnamenti di Padre Paolo Dall’Oglio per un connubio pacifico tra Cristianesimo e Islam. Magari fosse tutto leggero e pacifico come un film.
Chiudiamo con un grande ritorno. Capitan Harlock – L’Arcadia della mia giovinezza era il lungometraggio prequel della serie di anime anni ’70, regalava al pubblico la genesi di Harlock e della sua nave. Dopo 45 anni torna al cinema dal 20 al 22 maggio con Nexo Digital, che inizia da qui un percorso di uscite vintage rimodernate in 4k. Al primo giorno è 5° pur soltanto con 20.545 euro d’incassi (dati Cinetel) in un lunedì magro per tutti.
Harlock è un corsaro spaziale dal passato tormentato e radicato in una memoria genetica tra le sue generazioni e quelle dell’amico di sempre, quel Tochiro che costruirà l’Arcadia, l’astronave delle mille avventure. Nostalgico con la sua amata, Maya, voce spaziale di una radio illegale contro gli invasori alieni che hanno sottomesso gli umani tra mille umiliazioni, Harlock rappresenta una sorta di baluardo di libertà da qualsiasi invasore, quasi un Che Guevara futuristico dell’animazione nipponica. Potente capolavoro avventuroso e poetico, ripropone anche i doppiatori originali italiani che impressero il Capitano nell’immaginario di milioni di bambini e ragazzi dell’epoca. Ce ne fossero di eroi così, nello schermo e non solo.