Dice di aver appreso di essere indagato per le stragi del 1993 nel giorno del suo 85esimo compleanno. E quindi a Mario Mori l’avviso di garanzia della procura di Firenze è arrivato il 16 maggio scorso. Dopo aver appreso la notizia dell’indagine a suo carico, dunque, l’ex generale del Ros ha deciso di comunicarla ai più alti livelli del governo. La sera del 20 maggio, infatti, Mori è stato ricevuto a Palazzo Chigi dal sottosegretario Alfredo Mantovano, uno degli uomini più fidati di Giorgia Meloni. Il retroscena, filtrato all’agenzia Ansa, è stato poi confermato direttamente dal sottosegretario che gestisce tutti i dossier più delicati, relativi alle vicende politico giudiziarie. “Ho ricevuto a Palazzo Chigi il generale Mario Mori, che conosco da oltre 25 anni, e del quale ho sempre apprezzato la lucidità di analisi e la capacità operativa, nei vari ruoli che ha ricoperto, in particolare alla guida dei Ros dei Carabinieri e del Sisde“, sono le parole di Mantovano. Una difesa dell’ex alto ufficiale dei carabinieri, che poi si tramuta in un attacco alle contestazioni avanzate dalla procura di Firenze. “Al generale – spiega il sottosegretario – ho manifestato per un verso vicinanza di fronte alle contestazioni che gli vengono rivolte, delle quali mi ha messo a parte; per altro verso sconcerto, nonostante che decenni di giudizi abbiano già dimostrato l’assoluta infondatezza di certe accuse”. Quindi uno degli uomini più fidati della Presidente del consiglio ha voluto blindare la posizione di Mori, nella giornata in cui l’ex generale ha fatto sapere di essere finito di nuovo sotto inchiesta: “Gli eccezionali risultati che la dedizione e l’impegno del generale Mori hanno permesso di conseguire esigerebbero solo gratitudine da parte delle istituzioni nei suoi confronti. Tutte le istituzioni, magistratura inclusa“, ha aggiunto Mantovano, lanciando una stilettata neanche velata ai pm della procura di Firenze. E probabilmente anche a quelli di Palermo, che hanno processato Mori per tre volte, invece di mostrare gratitudine per il generale come richiesto da Palazzo Chigi.
I legami politici del generale – Resta da stabilire se la decisione di rendere pubblica l’esistenza dell’avviso di garanzia sia stata presa dall’ex alto ufficiale dei carabinieri in autonomia. O se invece è frutto dell’incontro a Palazzo Chigi. È nota infatti la vicinanza di Mori all’attuale maggioranza di governo: nel 2001 fu Silvio Berlusconi a nominarlo al vertice del Sisde, i servizi segreti civili. Nel giugno del 2023, invece, Mori venne ricevuto a Palazzo San Macuto. Andò a portare solidarietà a Chiara Colosimo, appena eletta presidente della commissione Antimafia, la cui elezione elezione era stata criticata da alcuni familiari di vittime di mafia e terrorismo. Il generale era stato ricevuto insieme a una delegazione del Partito Radicale, di cui faceva parte anche Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino e legale dei figli del giudice ucciso in via d’Amelio. Dopo quella visita il settimanale L’Espresso aveva accreditando a Mori addirittura un ruolo di “consigliere” della maggioranza in Antimafia. Una ricostruzione che non era stata smentita e d’altra parte dopo l’indagine di Firenze molti esponenti della coalizione di governo sono intervenuti per difendere Mori. Maurizio Gasparri ne ha subito approfittato per chiedere ancora una volta al ministro della Giustizia di mandare gli ispettori nell’ufficio inquirente toscano: “Nordio si muova – arriva a scrivere il capogruppo al Senato di Forza Italia -. Mandi un’ispezione a Firenze perché questa roba deve cessare. Una cosa indefinibile. Una situazione inguardabile. Servirebbero gli ispettori oggi stesso per porre fine alla persecuzione nei confronti degli eroi della legalità”.
Pure Crosetto difende Mori – Secondo il vicepresidente della Camera Giorgio Mulè, invece, l’indagine su Mori equivale addirittura “alla tortura di un cittadino italiano al cui cospetto questo Paese dovrebbe solo inchinarsi”. Si schiera con l’indagato anche Guido Crosetto, che su X dà una sua personale lettura dell’indagine: “Tutti devono sapere quanto sia grande il potere di far male a chiunque, di cui dispongono alcuni. Ha sbagliato forse a raccontare in tv l’assurdità della sua vicenda giudiziaria? Queste cose non dovrebbero accadere, nelle democrazie. Queste cose non sono accettate in nessuna democrazia compiuta. Questi sono atti che si vedono nelle autocrazie, sono la dimostrazione che la legge non è uguale per tutti e che le garanzie costituzionali non valgono per alcune persone”. Secondo il ministro della Difesa “non ci si poteva accontentare di avergli reso la vita un calvario per decenni; non si poteva accettare il fatto che fosse stato assolto da ogni contestazione…”. Il riferimento al “calvario” fatto dall’esponente di Fdi è relativo all’inchiesta sulla mancata perquisizione del covo di Totò Riina, al processo per la mancata cattura di Bernardo Provenzano e a quello sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia: in tutte queste occasioni Mori è stato sempre assolto in via definitiva.
Le contestazioni dei pm – L’avviso di garanzia ricevuto dalla procura di Firenze, però, riguarda altre contestazioni. Nel dettaglio Mori è accusato di concorso nelle stragi di Roma, Firenze e Milano, associazione mafiosa, associazione con finalità di terrorismo internazionale ed eversione dell’ordine democratico. Il difensore del generale, l’avvocato Basilio Milio, ha chiesto di rinviare l’interrogatorio del suo assistito, fissato dalla procura per il 23 maggio, a causa di un impegno professionale pregresso. Bisognerà dunque capire su quali elementi è fondata l’accusa dei procuratori aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli, oltre a quelli citati dallo stesso Mori nella sua nota stampa. Nell’avviso di garanzia, infatti c’è scritto che all’ex alto ufficiale dei carabinieri viene contestato di non aver evitato le bombe del 1993 nonostante “fosse stato informato, dapprima nell’agosto 1992, dal maresciallo Roberto Tempesta, del proposito di Cosa nostra, veicolatogli dalla fonte Paolo Bellini, di attentare al patrimonio storico, artistico e monumentale della Nazione e, in particolare, alla torre di Pisa”. Delle bombe ai monumenti, recita sempre l’avviso di garanzia, ìMori sarebbe stato avvertito anche dal pentito Angelo Siino “durante il colloquio investigativo intercorso a Carinola il 25 giugno 1993, il quale gli aveva espressamente comunicato che vi sarebbero stati attentati al Nord”. A Mori viene contestato il secondo comma dell’articolo 40 del codice penale: “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo“. Quindi, essenzialmente, secondo la procura di Firenze l’ex alto ufficiale dei carabinieri non si sarebbe attivato per scongiurare le stragi del ’93, pur avendo elementi per attivarsi in questo senso.
Bellini, la trattativa sulle opere d’arte e la Torre di Pisa – Le vicende citate nell’avviso di garanzia sono note. Nel caso di Bellini il riferimento è alla cosiddetta “seconda Trattativa“. È stata ricostruita dettagliatamente dalla requisitoria della procura di Palermo, alla fine del processo sul presunto patto occulto tra le istituzioni e Cosa nostra. L’uomo chiave di questa vicenda è Bellini, ex estremista di Avanguardia nazionale, recentemente condannato all’ergastolo in primo grado per la strage di Bologna. Il ruolo dell’ex primula nera non è mai stato chiarito fino in fondo. Recentemente è finito sotto i riflettori dei pm di Firenze e Caltanissetta, che lo hanno iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di essere il “suggeritore” delle bombe del ’93 a Firenze, Roma e Milano, ma pure di aver fatto da “concorrente morale” della strage in cui venne ucciso Giovanni Falcone. Amico di Nino Gioè, boss mafioso tra gli esecutori della strage di Capaci, nell’agosto del 1992 Bellini aggancia il maresciallo Roberto Tempesta, in servizio al nucleo per la Tutela del patrimonio culturale dei carabinieri. In un’area di servizio di Roma l’ex primula nera propone al carabiniere di infiltrarsi in Cosa nostra per recuperare alcune opere d’arte rubate. Secondo quello che ha raccontato Tempesta durante vari processi, in un primo momento Mori gli avrebbe detto di “andare avanti“. In effetti il dialogo prosegue: Bellini porta a Tempesta un biglietto con scritto cinque nomi. Sono tutti mafiosi di primo livello detenuti in regime di 41 bis: Luciano Leggio, Bernardo Brusca, Giuseppe Giacomo Gambino, Pippo Calò e Giovanbattista Pullarà. La richiesta di Bellini era di concedere gli arresti ospedalieri a quei boss, come prova dell’affidabilità dell’interlocuzione delle istituzioni. “Io dissi anche che secondo me la strada non era facilmente percorribile. Ed è a questo punto che lui mi disse una cosa del tipo: se tu dici che si preparano attentati ai monumenti non saresti legittimato a seguire la situazione?. E poi mi fa un discorso simile: ti immagini che effetto destabilizzante si avrebbe se di punto in bianco nelle spiagge come Rimini si trovano aghi infettati d’Aids e poi si sparge la voce, o se vogliono buttare giù la Torre di Pisa? Chi viene più in Italia?”, è il racconto di Tempesta davanti alla corte d’Assise di Palermo nel 2014. Di tutte queste vicende il carabiniere ha sostenuto di aver informato Mori, raccoantando di aver consegnato al generale anche il bigliettino coi nomi dei mafiosi. Il generale ha confermato di aver ricevuto quel foglietto, ma ha anche spiegato di essersene sbarazzato e di non aver voluto appoggiare quell’operazione. La procura di Palermo, però, ha contestato una presunta condotta omissiva di Mori, visto che il biglietto distrutto si trattava di una fonte di prova utile a stanare i boss. È il caso di sottolineare, però, che dai processi di Palermo Mori è sempre uscito assolto.
I colloqui con Angelo Siino – La questione della Torre di Pisa, raccontata da Tempesta e Bellini, viene confermata anche da Brusca, il boia della strage di Capaci, poi diventato pentito. Si era nascosto dietro a una porta per origliare il colloquio tra Bellini e Gioè. E il primo, a un certo punto, avrebbe detto: “Cosa accadrebbe se sparisse la Torre di Pisa?”. Bellini, però, nega: non fu lui a pronunciare quella frase, ma Gioè. Il quale, però, non può più replicare: è morto impiccato nel carcere di Rebibbia. Un suicidio stranissimo, anche perché Gioè lascia una lettera in cui sembra essere sul punto di collaborare con la giustizia: è la notte tra il 28 e 29 luglio del ’93, poche ore dopo la strage al Padiglione d’arte contemporanea di Milano. È l’ultima bomba che colpisce il patrimonio artistico del Paese, esattamente come aveva vaticinato Bellini. Di stragi fuori della Sicilia, tra l’altro, aveva parlato in anticipo anche Gioè. Lo ha raccontato Angelo Siino, considerato il “ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra, il trait d’union tra la mafia e il mondo degli appalti. “Lui portava sempre notizie di prima mano. Intuivo che lui parlava con i servizi segreti perché sapeva sempre qualcosa di cui mai si parla in Cosa nostra. Da Gioé appresi che vi sarebbero stati gli attentati alle opere d’arte e addirittura alla torre di Pisa”, ha raccontato il pentito nel 2015, deponendo al processo d’Appello per il mancato arresto di Provenzano. Durante quella deposizione Siino aveva raccontato di aver incontrato Mori e il capitano Giuseppe De Donno nel carcere Carinola, durante alcuni colloqui investigativi. Ecco perché il sostituto pg Luigi Patronaggio gli aveva chiesto se per caso avesse rivelato l’alert di Gioè ai carabinieri: “Sono loro a parlarne a me – ha risposto Siino – Mi vengono a trovare e per farmi cercare di collaborare. Mi dicono: lo vedi che sta succedendo e le situazioni che ci sono? Vennero decisi a chiedermi dell’attentato a Maurizio Costanzo mostrandomi una foto di una donna e mi chiesero chi fosse. Io risposi che era la fidanzata di Giovanni Brusca. Loro mi spiegarono che sarebbe stata vista alla guida della Mercedes che seguiva Costanzo”.