di Antonio Russo*

Se l’allarme lanciato in questi mesi dall’Alleanza contro la povertà fosse mai risultato agli occhi e alle orecchie di qualcuno inutilmente ed eccessivamente allarmistico, a certificare quella che rischia di divenire una pericolosa deriva, è l’Istat. Dopo che negli ultimi dieci anni la povertà assoluta in Italia è più che raddoppiata, a leggere i dati degli ultimi rapporti dell’Istituto nazionale di statistica sulle condizioni del Paese e sulle condizioni di vita e il reddito delle famiglie, si può cogliere la conferma di un processo di progressivo aumento della difficoltà in cui vivono milioni di persone e di famiglie.

Eppure non mancano alcuni dati positivi di controtendenza: l’economia italiana nel periodo 2019-2023 è cresciuta a un ritmo più elevato di Spagna, Francia e Germania, recuperando il livello del Pil di fine 2019 già nel terzo trimestre del 2021; nel 2023, gli occupati sono aumentati in media del 2,1 per cento, seguendo una crescita del 2,4 per cento nel 2022. Fin qui tutto bene, a patto che prendiamo in considerazione i dati macro economici nudi e crudi senza valutare la ricaduta sulla vita vera degli italiani.ci aspetteremmo che di fronte a una fotografia simile del Paese si possa “tirare almeno per un attimo il fiato”. Invece se addentrandoci negli altri numeri proviamo a capire come è cambiata in meglio la condizione delle persone, ripiombiamo in quello che da almeno un decennio sembra un immodificabile destino per quasi un italiano ogni dieci: il potere di acquisto delle retribuzioni lorde è diminuito in un decennio del 4,5%, le famiglie delle lavoratrici e dei lavoratori operai incidono sulla povertà assoluta per il 14,6% e sono cresciuti dal 2015, soprattutto tra i giovani, le donne e chi vive al sud del Paese, 466 mila lavoratori a bassa retribuzione.

Mentre il tasso di occupazione femminile è il più basso d’Europa, il dato della povertà assoluta, seppure più evidente nel Mezzogiorno e nelle Aree interne (che rischiano nel breve e medio termine di divenire deserti disabitati) cresce anche al centro e al nord. Pare ormai chiaro che fatta qualche isolata eccezione, il problema della povertà, seppure con declinazioni diverse, corra lungo tutto il Paese, individuando nel ceto medio una possibile platea di nuovi poveri.

Da un’attenta lettura dei dossier si può cogliere un altro dato non meno preoccupante dei precedenti: nell’arco di 10 anni il numero dei poveri assoluti è raddoppiato. Se questo trend non dovesse recedere, il limbo nel quale si trovano i working poor e chi oggi vive in una condizione di povertà relativa, potrebbe cedere verso il basso ampliando le fila dei già quasi sei milioni di poveri assoluti e delle oltre 2 milioni e 234mila famiglie. Quale lettura dare di un’Italia sempre più diseguale in cui le ferite della povertà colpiscono trasversalmente generi (le donne), generazioni (giovani e anziani) e aree geografiche (sud e aree interne)? Intanto quella della crescita di un quadro scomposto di cause e concause molteplici, che piuttosto che invertire la rotta di una grave patologia che tende a cronicizzare, la conferma.

Prima dal punto di vista culturale, poi dal punto di vista politico, o assumiamo il principio che la deprivazione sociale e la povertà sono una macchia per la democrazia e una mancata realizzazione delle condizione fondamentali della dignità umana, o non troveremo le ragioni di un cambio di passo delle politiche, da tempo atteso, ma pressoché assente nei fatti. Senza politiche universalistiche di contrasto alla povertà, mirate e il più possibile condivise, non riusciremo a invertire la rotta. Al massimo, di governo in governo, si procederà con provvedimenti di contenimento più simili ad un “rattoppo su un buco” che comincia a lacerare e indebolire a fondo il tessuto di intere comunità.

Riflessa nello specchio della povertà e delle povertà, ritorna l’immagine di un Paese in cui si confonde, sempre più spesso, il diritto a una esistenza dignitosa, alla legittima attesa di una presa in carico quando le condizioni della vita lo richiedono, con la colpa di essere nati, di essere o di essere divenuti poveri. Siccome le politiche per loro natura non sono mai neutre, è dalle ricadute che producono, che se ne misura la portata. Se solo il governo offrisse a circa quaranta organizzazioni sociali che ne fanno richiesta da mesi i dati ufficiali che raccontano come ha risposto alla sfida la legge 85/2023 (Assegno di inclusione e Sopporto alla formazione e al lavoro), se solo avesse la volontà di un confronto con chi non gli ha fatto mancare proposte e disponibilità a un lavoro di collaborazione, probabilmente si potrebbe costruire un luogo di condivisione di possibili strategie comuni. Al pari del fatto che non basta un incremento del Pil per accrescere il benessere di chi ha maggiori difficoltà, “troppi se, in attesa di risposta”, non cambiano il segno di politiche al momento meno efficaci di quelle del recente passato.

Se poi, come in altri Paesi del mondo, scegliessimo di non volerci più occupare dei poveri, allora la discussione da affrontare sarebbe un’altra. Ben più urgente di quella che ci impone l’Istat.

*Portavoce nazionale Alleanza contro la povertà

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