Nelle mani di un colonnello della polizia investigativa del Cairo c’erano i documenti, passaporto compreso, di Giulio Regeni, primache questi venissero ritrovati, dopo una perquisizione del 24 marzo del 2016, nella casa di alcuni rapinatori. Si tratta della nota ‘banda criminale’ sulla quale, depistando le indagini, l’Egitto tentò di scaricare le responsabilità della morte del ricercatore italiano. Nella nuova udienza del processo sul sequestro, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni, per il quale sono imputati quattro 007 egiziani, Usham Helmi, il generale Sabir Tariq e i colonnelli Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif (accusati del reato di sequestro di persona pluriaggravato, mentre al solo Sharif sono contestati anche i reati di concorso in lesioni personali aggravate e di concorso in omicidio aggravato, ndr) è stato così ricostruito uno dei diversi tentativi messi in atto dal regime di Al Sisi per sviare le indagini. Ovvero, la “sparatoria che ha coinvolto la presunta banda criminale di cinque persone che ovviamente non avevano nulla a che fare con il sequestro, le torture e l’uccisione di Giulio Regeni. Uno dei depistaggi più sanguinosi messi in atto dagli egiziani“, ha ricordato Alessandra Ballerini, legale dei genitori di Regeni al termine dell’udienza del processo.
Ora emerge pure un audio, registrato in segreto da un testimone, ribattezzato “Zeta” per ragioni di sicurezza, in modo da proteggere la fonte. Un cittadino egiziano che collaborò alle indagini, ma che non verrà a testimoniare in Italia perché “teme per la sua incolumità e della famiglia, dato che quando in passato ha collaborato con la procura di Roma è stato arrestato per mesi, proprio da uno degli imputati”, ha sottolineato il pm Sergio Colaiocco, che ha acquisito il file nel gennaio 2017. Un audio che la Procura di Roma ha ora chiesto di acquisire agli atti del processo a carico dei quattro 007 egiziani. I giudici si sono riservati di decidere, considerata l’opposizione delle difese. Ma non solo. Perché in Aula, nel corso dell’udienza è stato anche mostrato un video, ripreso da fonti aperte e già pubblicato in Italia, in cui vengono intervistati alcuni parenti della presunta banda di criminale. Dalle loro affermazioni e in base a quanto riferito dal colonnello Onofrio Panebianco, già per il Ros responsabile delle indagini sulle torture e l’omicidio di Giulio Regeni, è emerso come alcuni oggetti, come il portafogli, porta occhiali e auricolare, trovati nell’appartamento e consegnati anni dopo – nel 2020 – agli inquirenti italiani, non appartenevano in realtà a Giulio. ”Ci ritrovammo con un pugno di mosche”, ha tagliato corto lo stesso Panebianco, ricordando pure come “dai dati acquisiti sul colonnello che aveva diretto la perquisizione, eseguita dopo la sparatoria, abbiamo scoperto che questo ufficiale era legato da relazioni telefoniche con il colonnello che risulta essere la figura centrale nella ricerca informativa delle autorità del Cairo su Giulio Regeni quando lui era ancora in vita”. Tradotto, “le ricostruzioni che ci fornivano le autorità egiziane erano incompatibili”. Una serie di elementi e analisi che portarono Panebianco e gli inquirenti italiani a iniziare a pensare come “tutta l’operazione, la sparatoria, la perquisizione, il ritrovamento dei documenti, i contatti che esistevano, fosse in realtà qualcosa di adattato per l’esigenza di attribuire la morte di Giulio a qualcun altro che non fossero gli apparati di intelligence egiziani“.
Nel corso dell’udienza sono anche stati ascoltati i periti che si sono occupati dall’esame e dell’attività di recupero dei filmati dell’apparato di videosorveglianza della metropolitana del Cairo. I due consulenti hanno riferito di un “buco temporale di circa 18 minuti per quanto riguarda le immagini e di circa 20 minuti per quanto riguarda i video, registrati dalle telecamere della stazione metropolitana al Cairo”, proprio quando Giulio Regeni, il 25 gennaio 2016, sarebbe dovuto transitare ancora vivo. Le indagini successive alla morte di Giulio Regeni hanno accertato come l’ultima volta che il cellulare di Giulio Regeni aggancia una cella telefonica, attraverso una connessione dati, è alle 19.51 del 25 gennaio 2016, in corrispondenza della stazione di Dokki della metropolitana. Ma come hanno ricostruito i due consulenti ascoltati in Aula a Roma “dalle 19:49 alle 20:08 non ci sono immagini, né file video visibili”. I due tecnici hanno anche riferito come il sistema di sorveglianza della stazione avesse una capacità di immagazzinamento dati pari “a 36 terabyte, sufficienti per registrare 15 giorni nominali. Il sistema di gestione, però, è stato cambiato tra il 25 gennaio e il 3 marzo 2016. Come conseguenza si sono perse tutte le impostazioni del sistema precedente, sovrascrivendo il file di log; quel file permette di capire quali operazioni sono state effettuate sul sistema, comprese le cancellazioni“.
“Stiamo mettendo sempre più fuoco le responsabilità sui depistaggi e tassello dopo tassello ci stiamo avvicinando alla verità“, ha replicato Alessandra Ballerini, al termine dell’udienza, precisando come “tutti i testimoni sono importanti, quelli secretati particolarmente importanti: per aiutarci hanno messo a rischio la propria vita, per avere giustizia”. Tra i teste che saranno ascolti, ha annunciato il pm Colaiocco, ci sarà anche – con ogni probabilità dopo l’estate – la docente dell’università di Cambridge, Maha Abdelrahman, che faceva da tutor a Giulio Regeni nel periodo in cui il giovane ricercatore era al Cairo. La Procura di Roma ha fatto istanza per poter ascoltare la testimone in videoconferenza, in collegamento con un ufficio giudiziario inglese.