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“Io, guardia del corpo di Berlinguer”: il memoriale dell'”angelo custode” del leader del Partito Comunista

A quarant’anni dalla scomparsa di Berlinguer nel 1984, arriva in libreria “Io, guardia del corpo di Berlinguer” con prefazione di Luca Telese - L'ESTRATTO IN ESCLUSIVA

Anche se era il segretario del Partito Comunista, Enrico Berlinguer era circondato dagli angeli custodi. In quel caso, erano gli uomini della sua scorta, a lui fedelissimi e legati da un vincolo quasi familiare. In anni difficilissimi e spesso tragici, con il terrorismo che sembrava essere in grado di colpire chiunque e dappertutto, quegli uomini assicurarono l’incolumità del segretario con una dedizione e un impegno febbrili e instancabili. Roberto Bertuzzi era uno di questi. A quarant’anni dalla scomparsa di Berlinguer nel 1984, arriva in libreria “Io, guardia del corpo di Berlinguer” (Compagnia Editoriale Aliberti, con prefazione di Luca Telese), il suo memoriale di “angelo custode” del leader politico. Una storia di vita, che vede Bertuzzi assunto nel Servizio di Sicurezza del PCI dopo un’infanzia e un’adolescenza tormentate. Il partito diventa per lui una ragione di crescita e di riscatto totale: soprattutto quando sarà promosso al ruolo delicatissimo di guardia del corpo del segretario. Sarà la sua “ombra” fedele e rassicurante per anni, condividendo con lui ogni momento della giornata o quasi. Sino a quel 7 giugno del 1984 a Padova, quando Berlinguer si accasciò sul palco del suo ultimo comizio per il malore che lo ucciderà quattro giorni dopo. Bertuzzi era lì, naturalmente, e visse in diretta e in prima persona l’epilogo prematuro della vicenda umana e politica di uno degli uomini politici più amati di tutta la storia d’Italia: il comunista al quale tutti gli avversari resero omaggio il giorno delle sue esequie.

Ecco in anteprima per “ilfattoquotidiano.it” alcuni estratti dalla prefazione di Luca Telese:

Com’è bello, sorprendente e intenso questo libro di Roberto Bertuzzi, un romanzo di formazione che pare forgiato con la penna e gli strumenti narrativi di un altro tempo, un libro di “Cose viste” (come direbbe, se lo avesse potuto leggere, Victor Hugo), un libro che inizia da bambino come un romanzo di Charles Dickens in una galleria di orfanotrofi e istituti autoritari e osceni che paiono fermi al secolo Ottocento, che prosegue scatenandosi in una giovinezza inquieta e festosa, attraversando in corsa (e in bianco e nero) le borgate romane degli anni Cinquanta e Sessanta, come se si rivisitassero i capitoli di una versione aggiornata e romanesca de I ragazzi della via Pál. Un libro di speranza e rabbia (tanta) che riprende e cambia verso in corsa per diventare a sorpresa, nella seconda parte, un “Mimì metallurgico” dove la lotta di classe alla Voxson si intreccia fino a confondersi alla rivoluzione sessuale, dove si guardano e si seducono le donne emancipate del Consiglio di fabbrica, o si corteggiano le più procaci compagne di partito, ma anche mogli di conoscenti, turiste francesi e partner occasionali, con esilaranti acrobazie erotiche dentro utilitarie anni Settanta, meglio ancora se rotolandosi nei pratoni di periferia proteggendosi e avvolgendosi dentro lo striscione del sindacato.
Eppure, appena si stabilizza il ritmo dell’autobiografia a tratti erotico-sentimentale, ecco che improvvisamente tutto cambia ancora, di nuovo un altro libro nel libro, e il racconto crepuscolare si infila dentro la narrazione vitale: Roberto vede precipitargli addosso il cataclisma della caduta del Muro di Berlino (e della fine del PCI) con la malinconia di un Goodbye Lenin in salsa italiana. Anche qui non occorre indulgere nella psicanalisi per capire che, così come mamma Sina (la madre adottiva persa da bambino e poi ritrovata) è una delle poche sicurezze emotive e idealizzate di una vita, l’Enrico Berlinguer “visto da vicino” nella sua intima familiare semplicità (ad esempio quando scoppia a ridere dopo una notte in cui non riesce a svitare il tappo di plastica di una acqua minerale), e poi nelle sequenze drammatiche della morte (tra Padova e Roma, tra la testimonianza di Sandro Pertini e le lacrime – rarissime – di Giorgio Napolitano), con un pianto quasi furtivo consumato sotto il palco di tubi innocenti, è un padre simbolico altrettanto sublimato, quasi angelicato nella sua affettuosa normalità. Questo Berlinguer dolcissimo accompagnato nei rari momenti di riposo, mentre organizza partite nelle saline di Stintino, o mentre sfida il mare in barca, è il simbolo di un partito-famiglia che improvvisamente si dissolve, lasciando in Roberto spazio alla disperazione, all’alcolismo, alla droga, ai tentativi (in)consapevoli di autodistruzione, tutti raccontati con prosa neorealistica e sobria.
Questo è un libro che attraversa e documenta il costume italiano, sulla storia della sinistra, sul viaggio di emancipazione di un figlio di nessuno attraverso la speranza, l’amore e la politica. “Ultimo tango a Botteghe Oscure”, per un ragazzo di vita, e di partito, su cui Pier Paolo Pasolini – se lo avesse conosciuto – avrebbe sicuramente girato un film.

L’ESTRATTO IN ANTEPRIMA ESCLUSIVA
Qui di seguito un estratto dal capitolo “1984”

Lavoravo nei servizi di sicurezza del PCI e da qualche anno, insieme ad altri compagni, ero addetto alla sicurezza del Segretario. Eravamo partiti da Roma in aereo per Genova, la macchina blindata guidata da Alberto Menichelli ci aveva raggiunto all’aeroporto. Nel pomeriggio c’era stato il comizio in piazza e da lì andammo a Riva Trigoso per l’inaugurazione di una Casa del Popolo. La sicurezza era sempre molto bene organizzata, perché, oltre ai compagni del partito, avevamo sempre la scorta della Digos.
Durante il viaggio notai che le macchine della polizia evitavano di farci fermare agli incroci bloccando il traffico; non utilizzammo le sirene perché sapevamo che Berlinguer non amava, anzi odiava, questi spettacoli.
Nel frattempo Alberto e io avevamo disdetto le camere perché saremmo partiti per Milano a fine comizio: dopo l’episodio di Lavagna la polizia aveva bonificato tutta la piazza e, con i carabinieri, la presidiava.
Arrivammo in piazza a Padova con un corteo di varie macchine. Sull’alfetta blindata eravamo io, Alberto, il Segretario e Zononoto. In un’altra c’erano Tonino Tatò, suo capo ufficio stampa, e Ugo Baduel, giornalista de «l’Unità» che seguiva Berlinguer in tutti i suoi viaggi.
La piazza era gremita, dietro il palco un grosso schermo riportava il volto di chi parlava. Berlinguer vestiva sempre in modo molto sobrio; sotto il vestito portava una camicia bianca con cravatta ma non indossava il maglioncino rosso con lo scollo a V che gli avevano regalato le compagne del Bottegone.
Parlò prima Zononoto, poi Lalla Trupia, che era candidata al Parlamento europeo. Fu quindi la volta di Berlinguer. Cominciò a parlare e come al solito gli avevamo preparato un bicchiere di acqua e un altro di acqua con un goccio di Glen Grant. Niente di quei primi minuti faceva presagire la tragedia che si sarebbe abbattuta sulla piazza.
Io ero sotto il palco accanto alla macchina con Tatò e Baduel. A un certo punto, improvvisamente, rinfrescò e cadde qualche goccia di pioggia. Tatò e Baduel rientrarono in macchina, io rimasi fuori e cominciai a sentire dalla piazza qualcuno che gridava: «Basta! Basta!»
Dalla mia posizione non vedevo lo schermo, così mi spostai e vidi il volto di Berlinguer sofferente, non riusciva a parlare e dava dei colpi di tosse portandosi il fazzoletto alla bocca. Tornai alla macchina per avvisare gli altri. Tonino salì di corsa sul palco e insieme a Menichelli si misero ai lati del Segretario supplicandolo di smettere.
Stava molto male, sullo schermo il suo volto era una maschera di sofferenza, la gente dalla piazza gridava di farlo smettere, c’era chi invitava un medico a intervenire. A niente servì tutto questo perché lui volle chiudere il comizio con l’appello ai compagni di andare casa per casa per convincere i cittadini a votare il nostro partito.
Terminato il discorso, Tonino e Alberto gli chiesero cosa si sentisse, nel frattempo era arrivato anche un medico, rispose che aveva nausea e sentiva freddo. Menichelli si tolse il trench e glielo pose sulle spalle.
Venne accompagnato giù per la scaletta del palco, mentre avevo predisposto la macchina e dato indicazioni alle altre auto che saremmo tornati in albergo.
Giunti di corsa in albergo, chiesi al portiere di darci le chiavi delle camere, lui rimase come inebetito di fronte a tutte quelle persone entrate con me.
Raggiunsi nuovamente Berlinguer e Menichelli davanti all’ascensore, e insieme lo rassicurammo che avremmo avvisato la Federazione di Milano e che saremmo andati il giorno dopo. Nell’ascensore Berlinguer ci chiese se avessimo recuperato i fogli del discorso, gli dicemmo di sì e gli chiedemmo cosa sentisse. Lui ci rispose che si sentiva come se non avesse digerito e aveva mal di testa. Ricordando quello che aveva mangiato pensai che fu un errore non mettersi il maglioncino e che avesse preso freddo allo stomaco.
In quei momenti non è stato facile decidere il da farsi. Qualcuno ha poi scritto che avremmo dovuto portarlo subito in ospedale, che invece così si perse tempo.
Berlinguer era molto amato. Nonostante fosse una personalità di statura mondiale, con un carisma senza eguali, era riservatissimo. Le rare volte che ci chiedeva delle cose lo faceva sempre con molta educazione e umiltà.
Nel frattempo era stata chiamata un’ambulanza.
Arrivati in camera, Berlinguer ci disse che avrebbe riposato un po’. Lo aiutammo a togliersi il trench e a sdraiarsi, poi uscimmo perché era arrivato il professor Fieschi che ci aveva seguiti dalla piazza.
Il corridoio si era riempito di gente.
L’espressione sul volto del professore non faceva presagire nulla di buono: Berlinguer era stato colto da un ictus e dovevamo allertare l’ospedale per preparare la sala operatoria. Andava operato subito!