Provinciale. Termine dispregiativo, a indicare una mentalità chiusa, rozza, arretrata. Un brutto pregiudizio a tutti gli effetti, specie nel calcio. Specie nel calcio italiano, specie se quella provincia regala imprese indelebili come quella dell’Atalanta, capace di vincere l’Europa League. Una città di 120mila abitanti che si aggiudica la seconda coppa europea: nell’abuso dominante di storytelling sarebbe il cosiddetto sogno. In realtà è un traguardo arrivato con un progetto e una programmazione ben definita, cosa che nella “rozza” provincia è forse più semplice. Del resto non è la prima volta che accade.
Bisogna sfogliare a lungo gli almanacchi e tornare al secolo scorso per godersi l’immagine festante di una squadra italiana alzare la Coppa Uefa, oggi Europa League. Allora fu il Parma di Alberto Malesani a trionfare nella notte moscovita, il 12 maggio del 1999, quando allo stadio ‘Luzniki’ travolse per 3-0 l’Olympique Marsiglia del capitano Laurent Blanc con le reti di Vanoli, Crespo ed Enrico Chiesa. Da quella edizione ‘storica’ (dalla stagione successiva venne abolita la Coppa delle Coppe inglobando tutte le compagini classificatesi subito dietro le aventi diritto alla Champions in un unico torneo prima del nuovo format dell’attuale EL dal 2009) ci hanno provato in tanti a riprendersi lo scettro senza grandi risultati.
Per almeno due decenni le big italiane hanno snobbato la competizione (regalando anche diverse brutte figure) ma nell’ultimo quinquennio l’interesse (e di conseguenza la competività) è aumentato. Due i fattori scatenanti: motivi finanziari perchè al di là dei diritti tv qualche incasso in più non fa mai male, ma anche la possibilità di tenere acceso un sogno. L’Inter di Antonio Conte ci andò molto vicina finendo sconfitta a Colonia dal Siviglia nell’agosto del 2002 (3-2), nella finale post Covid, e la scorsa stagione fu la la Roma di Josè Mourinho ad accarezzare il sogno sempre contro il club spagnolo a Budapest ai rigori.
Ci ha dunque pensato ancora una volta una provinciale come l’Atalanta a riportare in alto i colori nazionali. Le analogie sono tante: società solida ed organizzata e squadra dotata di un gioco costruito sul talento dei suoi interpreti che punta ad arrivare al risultato attraverso lo spettacolo. In quel Parma, che in quella stagione magica si prese anche Coppa Italia e Supercoppa italiana, c’erano futuri campioni del mondo come Buffon e Cannavaro e fuoriclasse come Crespo, Balbo, Asprilla e Veron. Questa Dea ha regalato la stessa gioia, con la stessa modalità. Il Parma eliminò l’Atletico vincendo davanti ai 60 mila del ‘Calderon’ (senza dimenticare i sei gol al Bordeaux), l’Atalanta ha piegato il Liverpool ad Anfield Road. Sono corsi e ricorsi storici. Era destino dunque che l’ex Coppa Uefa tornasse nelle mani di una provinciale (in quella edizione protagonista fu anche il Bologna di Carletto Mazzone, fresco vincitore dell’Intertoto, che si fermò ai quarti).
In quell’estate del 1998 il Parma non si nascondeva, puntava allo scudetto e la dirigenza aveva inserito nel contratto di Malesani, artefice di un gioco offensivo che aveva pochi riferimenti con la scuola tattica italiana ispirandosi invece al 3-4-3 di van Gaal, un bonus di 1,5 miliardi nel caso fosse arrivato nelle prime due posizioni. Ora è il momento di Gasperini, dopo otto anni di Atalanta, raccogliere quanto seminato e prendersi il suo primo trofeo europeo. Per Malesani quello con il Parma fu l’unico conquistato. Gasp, ora che ha sfatato un tabù, spera di ripetersi presto.