Non essere discriminatori coi residenti stranieri in Italia nella concessione del Reddito di cittadinanza sarebbe costato due spicci: tre miliardi in quattro anni e mezzo ipotizzando l’estensione del sussidio all’intera platea straniera senza alcun vincolo, mentre se la Consulta desse torto al governo sul requisito della “residenza qualificata” (10 anni) la spesa massima teorica – tenendo conto delle domande respinte – sarebbe 850 milioni. È quanto si ricava da un documento interno dell’Inps, visto dal Fatto e anticipato dall’agenzia Lapresse, preparato in vista della sentenza con cui la Corte costituzionale dovrà decidere se il requisito della residenza in Italia da dieci anni per accedere ai sussidi anti-povertà violi o meno la Carta e il diritto comunitario: la Commissione Ue, com’è noto, su questa vicenda ha aperto una procedura d’infrazione contro l’Italia perché il criterio è ritenuto irragionevole (il soggiorno lungo, per dire, si ottiene dopo cinque anni). La Corte, in ogni caso, sul punto ha deciso di aspettare una sentenza della Corte di Giustizia europea.
Un breve riassunto aiuterà a capire meglio. Come forse qualcuno ricorderà, ai tempi in cui si varava il Reddito di cittadinanza (2019, governo M5S-Lega) vennero introdotti una serie di paletti reddituali e di altro tipo per restringere la platea che avrebbe avuto diritto al sussidio: fu un cedimento agli attacchi contro la norma che arrivavano dall’opposizione di allora (Pd compreso), dai media e da gran parte del mondo imprenditoriale. Alla fine il costo annuo della misura non è arrivato mai nemmeno alla metà di quello ipotizzato nei progetti iniziali dei grillini, vale a dire circa 20 miliardi l’anno. Uno dei requisiti più vessatori era quello inventato per prosciugare la platea degli stranieri: l’obbligo di residenza per dieci anni in Italia, gli ultimi due continuativi. Requisito molto contestato sia in termini morali che di diritto: come detto l’Ue lo ritiene illegittimo e la Consulta dovrà pronunciarsi a breve sulla sua sua costituzionalità.
Gran discussioni e spreco di menti giuridiche per una misura dal trascurabile impatto finanziario, particolare che ne svela il carattere ideologico se non vessatorio. E qui torniamo al documento predisposto dalla Direzione studi e ricerche dell’Inps proprio in vista della sentenza dei giudici delle leggi: dai numeri dell’ente previdenziale risulta che gli stranieri che hanno ottenuto il sussidio tra aprile 2019 e 2023 sono stati in media mensile 136mila con un assegno medio di 524 euro, il che fa una spesa totale di 4 miliardi di euro in quattro anni e nove mesi, in media circa 850 milioni all’anno, su un totale (spannometrico) di circa 34 miliardi. L’Inps ora scrive che, togliendo il requisito dei dieci anni di residenza, “il maggior onere per la finanza pubblica (…) è stimato in 3,088 miliardi di euro”, circa 650 milioni all’anno a fronte di una spesa annua a regime del Rdc che è stata di 8-9 miliardi all’anno. Questo in teoria, ma la realtà è che “risultano 106mila domande respinte o revocate per mancanza del requisito decennale in parola” e ad oggi “sono pendenti circa 600 controversie vertenti sulla medesima questione”: se si dovesse dare ragione a tutti e pagare il pregresso (cosa impossibile peraltro) “i nuovi e maggiori oneri sarebbero pari a circa 850 milioni di euro”, il 2,5% della spesa totale del fu reddito di cittadinanza.
Quanto all’Assegno di inclusione voluto da Giorgia Meloni ed entrato in vigore quest’anno, s’è deciso di mettere il paletto a cinque anni di residenza, gli ultimi due continuativi, un requisito più in linea col diritto comunitario (è il limite, come detto, per chiedere il permesso di soggiorno lungo): se anche questo criterio venisse travolto dalla sentenza della Consulta, calcola l’Inps, il maggior costo si aggirerebbe sui 220 milioni all’anno di qui al 2030.