Se solo fosse stata installata una termocamera, Alessandro Morricella avrebbe potuto non essere lì. Bastava uno strumento “facilmente reperibile sul mercato che sarebbe stata installata in tempi brevissimi”. Invece i manager di Ilva non ci pensarono mai e nell’acciaieria di Taranto c’era “una complessiva carenza di valutazione dei rischi e organizzazione dell’attività produttiva a discapito della sicurezza dei lavoratori”. Per capire perché in Italia si muore di lavoro, basterebbe scorrere le 209 pagine con cui la giudice Federica Furio ha motivato la condanna in primo grado per omicidio colposo inflitta lo scorso 29 febbraio all’allora direttore del siderurgico Ruggero Cola (6 anni di carcere) e ai dirigenti Vito Vitale e Salvatore Rizzo (5 anni): un investimento minimo e rapido per montare una “tecnologia già ampiamente conosciuta” nel settore degli altoforni avrebbe “eliminato radicalmente il rischio” per il 35enne e tutti i colleghi addetti alla misurazione della temperatura della ghisa.

La fiammata, l’agonia e la morte
Dentro l’Ilva di Taranto invece le operazioni venivano svolte manualmente. Così l’8 giugno 2015 Morricella si avvicinò al foro di colata dell’altoforno 2 per effettuare i prelievi finalizzati al controllo della temperatura, ma invece della lenta fuoriuscita del materiale che scorre in un canale apposito, venne improvvisamente colpito da una fiammata di materiale liquido. Dopo un’agonia durata quattro giorni, il giovane lavoratore si spense a causa delle ustioni di secondo e terzo grado sul 90% del corpo.

Il ritorno del condannato
A distanza di nove anni, c’è una prima verità giudiziaria che chiarisce come l’operaio avrebbe potuto salvarsi, ma tutto questo non ha impedito all’attuale management statale di Ilva di affidarsi nuovamente alle consulenze di Cola, richiamato dalla triade di commissari governativi per supportare il tentativo di tenere in vita l’acciaieria rantolante dopo gli anni di gestione ArcelorMittal. Il giudizio del Tribunale di Taranto è lapidario: “È stata omessa una cautela già ampiamente conosciuta nell’abito della siderurgia (termocamera), facilmente reperibile sul mercato che sarebbe stata installata in tempi brevissimi”. Una “omissione” avvenuta oltretutto in “una lavorazione di per sé pericolosissima”, che continuava invece a essere svolta manualmente.

“Il rischio era eliminabile facilmente”
Non solo. La giudice ritiene che nel processo siano state riscontrate “gravissime lacune” nella valutazione del rischio che era “gravemente deficitaria e del tutto inadeguata ad una azienda come Ilva”, dalla quale “a causa del tipo di attività svolta” è “giusto aspettarsi il più alto livello di professionalità da parte dei garanti”. Quella mansione, insomma, non doveva essere svolta manualmente e il “rischio poteva agevolmente essere eliminato alla fonte con un semplice e poco dispendioso adeguamento tecnologico” che Ilva “ha deliberatamente evitato di porre in essere”. Del resto, continua il Tribunale di Taranto, era “già presente una termocamera non attiva sul piano di colata per cui un intervento volto all’installazione di tale dispositivo risultava agevole, non costoso e poteva concludersi in un mese”.

Ci fu “un risparmio di spesa” per la società
Dalle motivazioni traspare anche perché nel reparto Afo 2 quell’adeguamento non avvenne: “Ha certamente comportato un risparmio di spesa per la società”, sottolinea la giudice evidenziando come, inoltre, le operazioni così come venivano svolte – mentre erano in corso anche delle manutenzioni su un altro punto di prelievo della temperatura – avevano “comportato una maggiore produzione di ghisa in tempi inferiori”. Nessuna scusante, ha stabilito la giudice sposando sostanzialmente l’impianto accusatorio del pm Francesco Ciardo e negando ai tre condannati anche le attenuanti generiche. Vitale e Rizzo, sottolinea, hanno per giunta “cercato di ricondurre il gravissimo evento occorso ad inverosimili e gravemente negligenti condotte degli stessi lavoratori”. Un tentativo di ribaltare una storia che suona assai simile ad altre decine, centinaia, di morti di lavoro. Ogni giorno, anche nove anni dopo.

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