I cronisti d'oltralpe incrociano le braccia. Per l'esecutivo il provvedimento serve a fare concorrenza ai colossi dello streaming. Ma per i professionisti dell'informazione è un'alibi e scrivono a Le Monde: "Temiamo per la nostra indipendenza"
I giornalisti della radio-televisione pubblica in Francia sono in sciopero da ieri e almeno fino a domani mattina. Playlist di canzoni, senza neanche un notiziario, per due giorni interi anche su France Inter, la radio più ascoltata dai francesi, con più di sette milioni di ascoltatori ogni giorno. Protestano contro la riforma dell’audiovisivo che prevede la creazione, all’orizzonte 2026, di una “Bbc à la française”, come dicono qui, accorpando in un’unica entità Radio France e France Télévision, l’Ina (Istituto nazionale dell’audiovisivo) e (ancora in forse) France Médias Monde, che comprende RFI-Radio France International e France 24.
Ieri un raduno è stato organizzato davanti alla sede del ministero della Cultura, a Parigi, su appello dei sindacati: “È in gioco la nostra stessa sopravvivenza”, denunciano. La riforma è voluta da tempo da Emmanuel Macron. Era già nel programma politico del presidente dal 2017, ma con la pandemia di Covid-19 era stata accantonata. Ora è ripresa e difesa a spada tratta da Rachida Dati, la ministra della Cultura, strappata da Macron alla destra gollista dei Républicains, che ne vuole fare il suo cavallo di battaglia in vista delle future elezioni municipali a Parigi.
Il nuovo “mastodonte” o “orco” dell’audiovisivo, come l’ha già soprannominato la stampa francese, si chiamerà France Médias. Avrà un budget di circa 4 miliardi di euro e conterà 16 mila dipendenti. Per il governo, l’obiettivo della fusione è di fare concorrenza a giganti come Netflix, Amazon Prime e Disney+. “L’audiovisivo oggi è debole perché è in pericolo – ha detto Rachida Dati a inizio settimana, forse nel tentativo di scongiurare lo sciopero di massa -. Voglio garantirvi non solo un lungo futuro – ha aggiunto – ma anche la vostra forza”, in un mondo in cui la “concorrenza si è esacerbata”, tra “gruppi privati”: “Il momento politico è arrivato”.
I sindacati temono soprattutto il ritorno del vecchio ORTF, l’Office de Radiodiffusion Télévision Française, l’ente nazionale di radiotelevisione pubblica, fondato nel 1964, sotto la tutela del governo, la cui neutralità fu più volte messa in discussione (per esempio durante il maggio 68), diventando il simbolo stesso del monopolio dello Stato sull’audiovisivo. L’ORTF fu chiuso nel 1974 e smembrato in sette diverse società: il ritorno di una versione new look preoccupa soprattutto i giornalisti di Radio France che hanno pubblicato una lettera su Le Monde.
In calce più di 1.400 firme: “Il rischio è soprattutto democratico – scrivono -. Temiamo per l’indipendenza dei vostri media di servizio pubblico dal momento che un unico amministratore delegato con pieni poteri sarà nominato alla testa di questa super-struttura. L’idea che la fusione dei nostri media faccia risparmiare è un’illazione. La creazione di un’unica azienda sarà molto costosa. Il desiderio di accorpare tutto l’audiovisivo pubblico ci sembra demagogico, inefficace e pericoloso”.
Il paragone con i modelli esistenti in altri Paesi europei, compresa la britannica Bbc, non serve ad attenuare le preoccupazioni dei giornalisti, che temono per la loro indipendenza, editoriale e finanziaria. Anzi, contribuisce pure ad aumentarle: “Mentre la Bbc ha un modello centenario riconosciuto per la sua qualità, è obbligata a ricorrere regolarmente a piani di ristrutturazione per fare fronte all’inflazione, in Italia, la Rai è oggetto di numerose critiche per il suo gioco pericoloso con il governo di estrema destra di Giorgia Meloni”, ha scritto l’Huffington Post.
Il disegno di legge prevede in un primo tempo la creazione di una holding dal primo gennaio 2025, ovvero di una “società-madre” che supervisioni le diverse aziende prima della fusione. Ma non vi è precisato né il costo della fusione né le modalità di finanziamento della nuova maxi-azienda. Il testo è già stato presentato dalla maggioranza, emendato dal Senato e validato alcuni giorni fa dalla Commissione parlamentare per la Cultura e l’educazione. Doveva arrivare in Assemblea ieri, ma il dibattito è stato rinviato (a giugno) perché il calendario parlamentare di questi giorni era già carico.
I responsabili politici sono divisi sulla questione. Tutta la sinistra, socialisti, “indomiti” di Jean-Luc Mélenchon, ecologisti e comunisti sono contrari. Questa riforma segnerà, secondo loro, “il culmine del discredito e dell’indebolimento” dell’audiovisivo pubblico francese: “Non sarà il ritorno all’ORTF a permetterci di fare concorrenza a Netflix”. La destra è favorevole, ma vuole pesare sul testo finale. Anche il Rassemblement National di Marine Le Pen, che da tempo milita per una privatizzazione dell’audiovisivo, si è detto d’accordo con la fusione.