È inutile. Ronzare attorno alle cose venute bene è professione per pochissimi. E tra questi non c’è George Miller con Furiosa – A Mad Max saga, regista e prequel di Mad Max:Fury Road (2015). I due film sono sì narrativamente legati, ovvero come la principessa Furiosa finisce con un braccio meccanico, a far fuggire le spose del dispotico Immortam Joe, e a farsi inseguire nel deserto per più di due ore di Fury Road da una carovana di folli esaltati spalmati di bianco che inneggiano al Valhalla. Due film che però sono anche totalmente slegati proprio nella frenesia dei meccanismi dell’azione e nella inarrestabile singolarità della messa in scena che in Furiosa svaniscono, nell’invadenza del bordone sonoro che nel prequel diventa un anonimo e spento orpello.
Furiosa – quinto capitolo della saga di Mad Max iniziata nel 1979 con Mel Gibson – è francamente un fiasco di proporzioni larghissime, un annacquamento del brodo grasso che Miller aveva ricominciato incredibilmente a cuocere con una creatività illimitata e felice dopo anni di maialini e pinguini parlanti. Bastava quindi davvero un nulla per scivolare nel kitsch estetico come nel pantano dell’inconcludenza drammaturgica e Miller ci è riescuto rievocando fuga e rapimento di Furiosa bambina da parte di un gruppo sadico e violento di predoni capitanato da Dementus (Chris Hemsworth) che le uccide pure la madre. Poi la bimba nobile cresce da sporca e lurida derelitta, e sfruttando l’andirivieni dei preziosi convogli dei camion cisterna potrà vendicarsi del cattivo Dementus stringendo un estemporaneo patto di fiducia con l’infingardo Immortam Joe (qua interpretato dietro un dentato ghigno di ferro da Lachy Hulme che sostituisce Hugh Keays-Byrne morto nel 2020).
Il farraginoso e trafelato tentativo di incastrare scenari spaziali nuovi (Gastown e Bullet farm) oltre all’epocale luogo infernale della Cittadella, in un andamento progressivo diviso in cinque insignificanti capitoli, mostra già come l’impalcatura di Furiosa sia banalmente traballante. Un po’ la prima ideuzza che viene in mente (script di Miller e Nico Lathorius) quando preme la richiesta di battere commercialmente il ferro caldo di Fury Road come fossimo tra le pieghe di un Rambo qualunque. Così tutto ciò che ci aveva lasciato a bocca aperta in Fury Road qui viene rimasticato in chiave terribilmente kitsch.
Con quei ninnoli scenografici e di costume là di eccentrica sregolatezza che si trasformano qui in pesanti protesi (il naso adunco e il barbone di Hemsworth non si guardano; pupazzetti e busti da parrucchiera tenuti in piedi sui manubri dei bolidi sono così pateticamente appiccicati), in pagine da depliant del camperista bavarese (il pullmino Volkswagen che diventa un mezzo scalcagnato di offesa lanciafiamme) o di un pacchiano citazionismo cinefilo (la biga alla Ben Hur trainata da tre moto supersoniche).
E se appunto in Fury Road contava la tensione dell’azione e in quell’arco teso di avanzamento ultrarapido e irto di ostacoli le psicologie dei singoli si delineavano come elegantemente sgrezzate e gradualmente strutturate, qui la definizione di gesti (persino atleticamente mal calibrati) e parole (Dementus una petulante infinità; Furiosa giusto un paio e noiose) sono di una tale svaccata ironica grana grossa – tra Flash Gordon e Dune di Lynch – che la serie Z avrebbe di che surclassarli.
C’è poi una incomprensibile debacle negli effetti visivi di una miscela fotografico-registica tra tavolozza di colori spenti e di deformate prospettive tanto che ogni due minuti, soprattutto nella prima ora di girato, sembra di essere abbarbicati alla finestra di un strambo film di Jean-Pierre Jeunet. Ana Taylor-Joy, infine, al posto di Charlize Theron, ma con l’intento di ricostruire i prodromi della grinta e della brutale determinazione della Theron, è uno degli azzardi di casting più sballati e fuori fuoco della storia del cinema. Si spera che il filo di Mad Max venga tagliato qui. Altro che apertura di Cannes. Probabilmente il più malriuscito dell’intera saga.