L'ultimo libro (edito da Timeo) dell'autore che lavora per radio, tv e giornali. Pubblichiamo un estratto del primo capitolo
“Siamo ancora nella foresta della nostra iniziazione. È qui che si rinasce, è qui che si decide un nuovo destino; qui ci si reintroduce in quella Realtà in cui eravamo stati introdotti senza alcuna preparazione nel momento della nostra nascita.”
Questa storia, che è la nostra storia, inizia dall’inizio. Dalla nascita: l’atto fisico che ci introduce in una dimensione dell’esperienza che agisce come «l’effetto di un incantesimo», confinandoci in una limitata porzione di realtà. Edoardo Camurri in “Introduzione alla realtà” (edito da Timeo) ci conduce alla riscoperta dell’origine materiale, tangibile, delle idee che, senza che ne siamo consapevoli, ci relegano entro limiti angusti. Per reincantarci, è necessario il disincanto. Dobbiamo hackerarci, dimenticare leggi immutabili che, nella giusta prospettiva, si rivelano null’altro che abitudini. Dobbiamo riscoprirci atomi, cellule, emozioni e desideri – il tessuto stesso della realtà.
Un’opera filosofica che nasce dalla più ordinaria quotidianità in cui l’autore non insegna, ma racconta; una viscerale dichiarazione d’amore per l’esistenza; un percorso iniziatico in cui il mistero diviene una fiaba di cui noi tutti siamo gli eroi e le eroine che escono dalla foresta solo per rientrarvi, liberati da ogni paura, per riscoprire la meraviglia.
Edoardo Camurri lavora per la radio, la televisione e i giornali. Il suo ultimo programma è “Alla scoperta del ramo d’oro” su Rai 3. Per Adelphi ha curato Il reato di scrivere di Juan Rodolfo Wilcock, mentre, tra le altre cose, per Mondadori ha introdotto gli scritti psichedelici di Aldous Huxley.
Quello che segue è un estratto del primo capitolo di “Introduzione alla realtà” (Timeo).
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Iniziamo col dire che la Realtà è, in principio, un’introduzione alla Realtà: quando fai la tua comparsa nel mondo, quando debutti nella Realtà, ti introduci letteralmente – un po’ come un ladro che scassina un appartamento o come una malattia che si inocula in un corpo – in un ambiente che ti precede e che poi, probabilmente, a giochi quasi fatti, ti verrà da chiamare mamma, casa, vita, mondo, natura ed essere. La differenza la può fare la forza, la violenza o la dolcezza di questo tuo introdurti, ma sono soltanto gradi diversi di sensibilità e di potenza di un soggetto che sta facendo irruzione nel mondo.
Questo è un primo punto del discorso.
Ed è un punto attivo.
Siamo noi che, nascendo, entriamo nella Realtà. Ci siamo. E siamo annunciati.
Siamo i protagonisti della nostra storia.
Siamo il soggetto che finalmente può agire in un mondo di oggetti, disponendone.
Nello stesso tempo, quel soggetto che siamo non è un punto isolato sul piano geometrico dell’apparire; quel punto fa ombra. È come se quel punto, infatti, ne generasse simultaneamente un altro, paradossalmente coevo al punto di partenza – un puntopadre che è anche, e da sempre, un puntofiglio – la semioscurità della sua presunta attività.
Ed è quell’ombra a suggerire i primi dubbi che, qualche tempo dopo, si affacceranno: sei tu a scoprire l’essere o è l’essere a scoprire te? Più in generale: siamo noi a introdurci nella Realtà o è la Realtà che si sta introducendo in noi? Siamo noi che generiamo la madre rendendola tale o è la madre a generare noi pretendendoci come figli?
Insomma, il punto che siamo è luce o ombra? Agisce o patisce?
O agisce patendo?
Teniamo il punto. E rimaniamo su quel fiore di Loto di una bambina o di un bambino che nasce. Si tratta di un esordio che cambia tutto. È quella primavoltità della vita che, a ogni nascita, si rinnova arricchendosi di una nuova vita.
Momento attivo.
Ma è un esordio che è anche la denuncia di una mancanza, di una fame di Realtà, di uno scontro tra la realtà che siamo (la bambina, il bambino) e la realtà che è fuori di noi (il mondo).
Momento passivo.
Il nostro essere dentro la Realtà, il nostro stare nella Realtà, è un’iniziazione alla Realtà stessa o, per meglio dire, un addestramento alla Realtà.
Si viene al mondo con dei bisogni che solo la Realtà può soddisfare.
La realtà che siamo è l’espressione di una necessità della Realtà che non siamo, il suo desiderio.
Nel xviii secolo, il filosofo francese Maine de Biran diede una definizione di Realtà che trovo affascinante: «La Realtà è ciò che resiste».
Uno dei primi modi in cui incontriamo la Realtà è una forma di resistenza, una forma di non corrispondenza tra ciò che sentiamo, desideriamo e vogliamo, rispetto a tutto ciò che c’è: spazio, tempo, oggetti, significati e linguaggio che ereditiamo e che, per il momento, riteniamo che stiano fuori di noi.
La Realtà è un ostacolo.
E, come tutti gli ostacoli, ha questa funzione, buffa, ridicola e, insieme, prepotente, di pretendere di educarci senza chiedercene il permesso. Nascendo, infatti, non possiamo rivendicare alcuna indipendenza, perché la Realtà si è già dispiegata su di noi alla velocità di un Big Bang.
Il cosmo è un mantello che si stende al nostro primo battito di ciglia.
E l’esordio è già una resa: prima di ogni cosa, siamo obbligati ad accettare ciò che ci sta dinanzi come un dato di fatto, dobbiamo prenderne atto con obbedienza; e, in un attimo, la nostra crescita è già indirizzata verso il conformismo, il nascondimento, lo stratagemma, il servilismo, la paura.
In una parola: l’intelligenza.
La Realtà ha le movenze, le sembianze, di una locandiera: pretende tutta l’attenzione per sé, non vuole che ci interessiamo ad altro che a lei stessa. Sta lì, e si piazza a gambe larghe, pugni sui fianchi.
Proviamo a fare a meno della Realtà, se ne abbiamo il coraggio. È noto come va a finire: chi lo ha fatto è stato quasi sempre spedito in manicomio. Non avere il senso della Realtà significa essere fuori dalla Realtà e chi è fuori dalla Realtà deve essere prima rinchiuso in un inferno murato (manifestazione massima della definizione di realtà come ciò che resiste) e poi rieducato immediatamente a tornarci, se proprio ci si tiene.
La Realtà è la manifestazione più grande del narcisismo.
Un esempio: una delle caratteristiche universali della Realtà è la forza di gravità. Ora, c’è qualcosa di più narcisistico della forza di gravità? Per quale motivo noi e tutto ciò che c’è dovremmo subire e soffrire questa forza? La Realtà, essendo ciò che resite, esige di essere ascoltata e impone il suo comando innanzitutto attraverso le leggi di natura che la definiscono. Archetipo di ogni forza di polizia.
Quel bambino, quella bambina, di cui abbiamo detto, esordisce alla Realtà patendo; ha immediatamente dei desideri: ha bisogno di nutrirsi, ha bisogno di affetto, deve stare al caldo. Piange. E la Realtà sta lì, pronta a offrire uno scambio: «Posso darti quello che vuoi in cambio di te stessa o di te stesso, giovane anima». La storia della vita è la storia di questo ricatto continuo tra le esigenze delle specie viventi con le promesse della Realtà: sopravvive chi non le disattende e chi non le delude.
Ecco, la Realtà ci dà da pensare. La Realtà è il motivo per il quale scendiamo a patti con Lei, immaginando, agendo, industriandoci.
La storia della tecnica è epica aziendale: Tu, Realtà, opponi resistenza, ma io, grazie all’intelligenza, al logos, alle mie invenzioni, posso in qualche misura collaborare con te e renderti un po’ più docile, più vicina alle mie esigenze, ai miei desideri, ai miei sentimenti.
Poveri Robinson Crusoe che siamo.
La Realtà vuole renderci uguali a sé stessa.
Le cose nascoste sin dalla fondazione del mondo sono le conseguenze di una sindrome di Stoccolma ancestrale, edenica. Da vittime della Realtà a carnefici della Realtà, da animali sacrificali a suoi collaboratori zelanti.
A forza di guardare l’abisso si diventa l’abisso e bla bla bla.
La forza di gravità inizia a piacerci, come il fango piace ai maiali.
Siamo figli di questo limo.