Alle ripetute condanne di Israele emesse negli anni dall’Assemblea dell’Onu, si aggiungono oggi i procedimenti in corso presso la Corte Internazionale di Giustizia e la Corte Penale Internazionale, con la richiesta di arresto (non ancora convalidata) del premier Netanyahu e del ministro Gallant.
L’immagine di Israele subisce un tracollo disastroso, apparentemente improvviso, ma in realtà in atto almeno dal 1967, e implicito nelle premesse che portarono alla costituzione dello Stato. Per quanto i vertici dello Stato di Israele possano negare il disastro e attribuirlo all’antisemitismo, il dato di fatto è che Israele è accusato di sanguinose violazioni del diritto internazionale.
Lo Stato degli ebrei immaginato da Theodor Herzl nel 1896 era uno stato etnico, come del resto tutti gli stati nati nel XIX secolo, Italia inclusa: l’idea del popolo-nazione era figlia del romanticismo e conteneva in sé una vena di razzismo, che all’epoca era largamente condivisa, e sembrava plausibile e addirittura sana. Dopo gli orrori della II guerra mondiale, l’idea dello stato etnico è diventata impresentabile e l’affiliazione del cittadino allo stato è stata quasi dappertutto riformulata in termini amministrativi anziché etnici. In Israele questo processo non è avvenuto e lo stato è rimasto uno stato etnico per la comprensibile ragione di garantire un rifugio ad un gruppo che era stato quasi sterminato nella Shoah.
Purtroppo una buona ragione non può validare un principio eticamente inaccettabile e rendere moralmente lecito lo stato etnico. Lo stato etnico discrimina i suoi cittadini, li divide in gruppi, e assegna ad un gruppo diritti speciali, negati agli altri gruppi; crea di fatto un sistema di caste. In Israele questa situazione è ulteriormente aggravata dalla presenza della consistente minoranza palestinese dei territori occupati, che non ha alcun diritto e non appartiene di fatto allo stato. In aggiunta a questa situazione già di per sé disastrosa, il gruppo che si ritiene padrone dello stato è mal definito: lo stesso Ben Gurion aveva dubbi su chi dovesse essere considerato ebreo nel mondo e quindi destinatario esclusivo della “legge del ritorno”, che gli garantiva il diritto alla cittadinanza ed altri benefici negati ai cittadini di origine araba.
La risposta alla domanda di Ben Gurion fu trovata nella tradizione religiosa: è ebreo chi nasce da madre ebrea o chi è membro della confessione religiosa ebraica. Una definizione diversa è impossibile perché questi gruppi umani, nella felice definizione di Benedict Anderson, sono “immaginati”: gruppi psicologici, privi di basi biologiche o comunque oggettivamente definibili. Come conseguenza, Israele è uno stato etnico appoggiato su una teocrazia e indirettamente controllato dallo strapotere dei religiosi ortodossi.
La persecuzione della popolazione palestinese, iniziata addirittura prima della costituzione formale dello stato, è divenuta progressivamente sempre più crudele e manifesta, fino ai crimini di guerra che le corti internazionali stanno attualmente indagando; ma le cause del disastro morale dello stato d’Israele sono presenti da sempre, anche se in passato erano state meno visibili.
Esiste oggi una via d’uscita? Il progetto dei due stati per i due popoli è largamente compromesso dagli insediamenti illegali nei territori occupati, ed è comunque una soluzione di ripiego, che non risolve la natura etnica, oggi inaccettabile, dello Stato degli ebrei. Lo stato unico binazionale è difficile da accettare per entrambe le parti e rischia di generare una sanguinosa guerra civile; forse è possibile immaginarlo in una forma federale, con una separazione territoriale “fluida” tra i due gruppi, al modo della Svizzera o del Belgio.