Che Anora di Sean Baker potesse andare a premio al festival di Cannes lo dicevano molti sulla Croisette nei giorni scorsi. E che ci potesse andare Emilia Perez di Audiard era anche questo abbastanza previsto, almeno per la straordinaria interpretazione dell’attrice trans Karla Sofia Gascòn e per la coralità del film, non solo dalla parte degli attori. Pochi però si sbilanciavano fino a dire che uno dei due film potesse prendere la Palma. Invece, venerdì scorso, dopo la proiezione di Il seme del fico sacro di Mohammad Rasoulof quasi tutti davano per vincente quel film. C’era un’emozione in sala che non si vede quasi mai nei festival, un palpito collettivo con quasi venti minuti di applausi, fermati infine da Thierry Frémaux solo perché incombeva il film successivo e bisognava svuotare il Théâtre Lumière.

Attenzione: nella previsione non c’entrava il fatto che Rasoulof fosse fuggito miracolosamente dall’Iran o che il film fosse un manifesto di libertà e di sostegno alle donne iraniane. No, la previsione derivava dalla qualità del film, un mix di thriller, dramma familiare, film on the road (l’inseguimento tra le auto verso il finale ricorda il primo Spielberg, quello di Duel), western, con un finale alla Sergio Leone, con tanto di primissimi piani e rumore del vento in sottofondo. E soprattutto per la parabola drammaturgica costruita dal film, che tiene incollati alla poltrona per due ore e tre quarti senza che si senta una sola volta la fatica della visione. Certo, nel film di Rasoulof la dimensione politica è importante e cristallizzata nella frattura generazionale all’interno della famiglia del neo giudice istruttore. Ma Rasoulof non è Rosi, non fa film a tesi, usa le testimonianze video degli incidenti verificatisi in occasione delle manifestazioni di piazza, costruisce il film lasciando che siano più i fatti che le persone a parlare. In questo sente gli echi della lezione neorealista.

Invece, come si è visto, il regista iraniano è stato l’unico a salire sul palco e a prendere non una palma, ma solo un diplomino, frutto del premio speciale. Il quale premio ha un sapore paternalista, è come dire: non ti avremmo (o abbiamo) premiato, però ti diamo un riconoscimento per i meriti politici del film. Non c’è stata da parte della giuria la capacità o la possibilità di cogliere la stratificazione complessa del film. Molti pensano che Il seme del fico sacro sia stato danneggiato dall’essere messo in concorso l’ultimo giorno, a giochi della giuria ormai fatti. A questo proposito bisognerebbe ripensare a fondo la struttura dei concorsi principali nei festival maggiori: ventidue film in concorso presentati in undici giorni significano per la giuria due film al giorno. Non c’è quasi la possibilità di rivedere niente, mentre a volte si assiste a film di cui ci si chiede come e perché possano essere in gara.

Senza entrare nella scelta di Cannes di quest’anno, si possono ricordare ad esempio i sei (sei) film italiani nell’ultimo concorso di Venezia. Perché? Se i film fossero dodici o quindici, la giuria sarebbe meno affannata. E ci sono tante altre sezioni ufficiali per promuovere un film, non è solo il concorso a fare da cassa di risonanza per la fortuna di un prodotto.

Ultima notazione: sui social si sta protestando per la composizione delle giurie, ormai fatte solo da cineasti (registe, attori, direttori della fotografia ecc.). Forse non sarebbe bene avere i critici nelle giurie, anche perché ci sono i premi Fipresci che sono fatti per questo. Ma come non ricordare che in vecchie edizioni di festival c’erano fior di scrittori in giuria? Per dire, il presidente di giuria di Cannes che dette la Palma a Fellini per La dolce vita e il Premio speciale della giuria a L’avventura di Antonioni si chiamava Georges Simenon. E a Venezia sono passati in giuria Günter Grass, Rafael Alberti, Eugène Ionesco e tanti altri. Non sarebbe l’ora di riprendere quella tradizione?

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