Mondo

C’è mandato e mandato: la richiesta di cattura di Netanyahu fa riflettere sull’ipocrisia occidentale

di Eugenio Lanza

Nella giornata di lunedì 21 maggio 2024, il procuratore capo della Corte penale internazionale (CPI), Karim Khan, ha richiesto l’emissione di mandati d’arresto nei confronti di Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant. Oltre che verso il premier israeliano e il suo ministro della difesa, la medesima istanza è stata avanzata nei riguardi di tre vertici di Hamas. Si attende ora la decisione dei giudici. Ma che valore avrebbero questi mandati di cattura, se venissero infine spiccati dalla corte? In teoria, significherebbero l’arresto immediato di questi soggetti. In pratica, nulla di concreto. Il tribunale, infatti, non ha nessun mezzo per coartare uno Stato che non la riconosce a far sottoporre un proprio cittadino al suo giudizio. Un problema non indifferente.

È in tal senso emblematico un episodio risalente ad un anno fa, quando sul banco degli imputati della CPI sarebbero dovuti finire due esponenti del Cremlino.
In data 17 marzo 2023, infatti, venivano spiccati mandati di cattura internazionali verso Vladimir Putin e Maria Alekseyevna Lvova-Belova (la Commissaria federale russa per i diritti dell’infanzia). L’accusa era quella di deportazione di popolazione infantile dai territori occupati in Ucraina. Un crimine odioso, degno di sanzioni pesantissime, se ne fosse stata dimostrata l’attuazione.

E all’epoca, in effetti, l’operato de L’Aja ricevette un plauso generale da tutto l’Ovest del mondo. In particolare, il leader ucraino Zelensky dichiarò: “Questa è una decisione storica che porterà a responsabilità storiche. […] Ringrazio tutto il team del Procuratore Karim Khan per il lavoro svolto”. Gli fecero eco le esternazioni di Joe Biden, secondo cui i mandati di cattura erano “giustificati”. Dichiarazioni apparentemente banali sia nei modi che nel contenuto, dati gli autori, ma piuttosto curiose se sottoposte ad un’analisi più attenta. Per un motivo molto semplice: né gli Usa né l’Ucraina si sottopongono all’autorità del tribunale in questione. Così come moltissimi altri Paesi, tra cui Russia, Cina, India, Turchia e Israele. Ed infatti, a quattordici mesi di distanza, quelle richieste di cattura in direzione di Mosca sono rimaste prevedibilmente inevase.

La CPI è tornata ora a farsi sentire attraverso le istanze dello stesso procuratore capo. Ci riferiamo ai suddetti mandati d’arresto verso i leader di Israele e quelli di Hamas. Una decisione ampiamente giustificata dalla carneficina operata a Gaza in questi mesi, durante i quali hanno perso la vita più di 34mila palestinesi, quasi tutti civili.

Questa volta, tuttavia, le reazioni del “mondo libero” alle richieste della CPI sono state decisamente più tiepide, se non apertamente negative.
Netta la posizione di Biden: “Lasciatemi essere chiaro: noi rigettiamo la richiesta della CPI di arrestare i leader israeliani. Qualunque cosa questi mandati possano significare, non esiste alcuna equivalenza tra Israele ed Hamas”. Non che la Corte l’avesse mai stabilita, sarebbe il caso di replicargli. Ma forse, inavvertitamente, il presidente americano ha sottolineato un dato di realtà inoppugnabile. In termini quantomeno numerici, infatti, i terroristi di Tel Aviv e quelli di Hamas non possono essere comparati, poiché i primi hanno ucciso e distrutto molto più dei secondi.

Nella civile Europa, si segue semplicemente la linea di Washington. Il nostro ministro degli esteri Tajani, ad esempio, ha dichiarato candidamente: “Mi pare veramente singolare, direi inaccettabile, che si equipari un governo legittimamente eletto dal popolo a una organizzazione terroristica che è la causa di tutto ciò che sta accadendo in Medio Oriente” (sic!). Insomma: non tutte le occupazioni vengono condannate con la stessa fermezza, e senza dubbio v’è mandato di cattura e mandato di cattura, a seconda dei punti di vista. Ammesso che il diritto possa limitare la violenza del mondo, al momento non glielo stiamo permettendo.

Nel frattempo, a Gaza e in Ucraina, si muore. Senza possibilità di ricorso in appello.

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