Nulla è stato più frainteso della vittoria. Perché l’idea di successo viene fatta coincidere con una coppa luccicante da alzare al cielo, con una parata lungo le vie cittadine a bordo di un pullman scoperto, con un tricolore da ostentare in faccia agli avversari. A trionfare è solo il primo. Tutti gli altri possono essere raggruppati sotto la poco lusinghiera etichetta di “perdenti”. Punto. È una narrazione avara e insensata. Perché si basa sull’errato presupposto che tutti siano partiti dallo stesso punto, che il capocannoniere valga quanto il bomber più arrugginito del campionato, che i quattrini, sterco del demonio e concime di ogni sogno, non siano una delle parti fondamentali della questione. Ora però questo tipo di narrazione comincia a mostrare qualche crepa. Il trionfo non è più un’idea assoluta, ma relativa, qualcosa di proporzionale rispetto alle premesse. Il merito è soprattutto di Davide Nicola, l’uomo diventato leggenda di provincia collezionando diciassettesimi posti, che ha salvato squadre così derelitte da sembrare già spacciate.
Un gioco di prestigio che gli è riuscito con Crotone, Genoa, Torino e Salernitana. E, ieri sera, anche con l’Empoli. Re Mida di periferia in grado di trasformare qualunque cosa tocchi non in oro ma in una lega comunque nobile, l’allenatore ha aggiornato un libro che assomiglia più a una raccolta di racconti diversissimi fra loro che a un romanzo. L’incipit di questa storia è stato scritto ancora una volta a gennaio, il mese in cui il nome di Davide Nicola comincia a essere pronunciato con una frequenza sempre maggiore. Da chi inizia ad avere paura. Da chi si guarda indietro in classifica e non vede più nessuno. Le regole di ingaggio sono sempre le stesse. La missione è disperata, le probabilità di scottarsi sono altissime. E proprio in queste sabbie mobili il tecnico di Luserna San Giovanni trova il terreno a lui più fertile. Il suo lavoro sembra basarsi tutto su quell’aforisma di Oscar Wilde secondo cui “l’uomo può credere all’impossibile, non crederà mai all’improbabile”.
È l’elevamento a potenza di un paradosso. Più un obiettivo è difficile da raggiungere, più diventa concreto. La stagione dell’Empoli aveva assunto i contorni dell’incubo già a settembre. Sconfitta con il Verona. Sconfitta con il Monza. Sconfitta con la Juventus. Poi alla quarta giornata la squadra di Zanetti si era andata a schiantare contro il muro della Roma di José Mourinho. In casa dei giallorossi, penultimi in classifica con un solo punto, i toscani si erano presentati senza Baldanzi e senza troppa convinzione. Il risultato finale era stato impietoso. Una squadra che faticava maledettamente a segnare aveva vinto per 7-0. L’avventura di Zanetti era finita lì. Ma per l’Empoli c’era ancora tutto un campionato da giocare. Ed il problema era proprio quello. Il rischio di imbarcate era enorme. Così come la possibilità di ritrovarsi con un piede nel purgatorio della B già a gennaio. Allora il club aveva chiamato Aurelio Andreazzoli. E la situazione era migliorata solo parzialmente.
Tre vittorie, quattro pareggi, nove sconfitte. Una media di 0.81 punti a partita. Tradotto: diciannovesimo posto in classifica e quota salvezza lontana cinque punti. Andare avanti così è impossibile. La società riflette e annuncia. Nicola sostituisce Andreazzoli che prese il posto di Zanetti. È una filastrocca che funziona. L’Empoli un tempo straziato e straziante mette in fila sei risultati utili consecutivi (vittorie su Monza, Salernitana e Sassuolo, pareggi con Juventus, Genoa, Fiorentina). L’annata ha un altro sapore. E continua ad averlo anche quando le cose cominciano ad andare male, quando le sconfitte si sommano una dopo l’altra fino ad arrivare a quattro. Il senso del lavoro di Nicola sta tutto qui. Nel mantenere i nervi saldi. Nella gestione delle emozioni. Nell’aggiustare un giocattolo rotto senza stravolgerlo, ma cercando la giusta collocazione di ogni componente, di ciascun giocatore, nel seguire non tanto un modulo quanto i concetti. “Se potessi, sbranerei tutti. Vorrei dominare il gioco, vorrei sempre andare a prendere gli avversari alti. Purtroppo poi c’è la realtà” disse qualche anno fa in un’intervista a Ultimo Uomo.
È una frase che ricorda Cecco Angiolieri e il suo “S’i’ fosse foco, arderei ‘l mondo/s’i’ fosse vento, lo tempesterei/ s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei”. O almeno in parte. Perché nel lavoro di Nicola non c’è l’astrattismo della poesia, ma la concretezza dello studio. Nella stessa intervista spiega di aver creato un gioco basato “sulla costruzione dal basso, ma fatta con pochi giocatori, spogliata di tutti quei passaggi per noi potenzialmente pericolosi. Il nostro scopo è diventato portare la palla il più rapidamente possibile nella trequarti avversaria. Altre squadre giocavano dai 140 ai 200 passaggi in costruzione a partita, noi ci siamo imposti un limite massimo di 50 e abbiamo lavorato in allenamento per questo scopo”. È un enorme lavoro di scarnificazione, di recupero della sostanza. In ogni azione il primo passaggio serve per spedire il pallone nella parte più propizia del campo. Il secondo deve essere già una verticalizzazione. In un mondo della comunicazione dove l’espressione “un tipo mai banale” è stata banalizzata e svuotata di significato, Nicola mantiene intatta la sua capacità di comunicare concetti interessanti, pensieri poco epidermici.
“Per me l’allenatore-psicologo è un’assoluta fesseria, perché l’allenatore allena e basta; ma è chiaro che ci sono delle situazioni in cui le relazioni diventano fondamentali» ha detto in un’altra intervista. A Empoli, però, Nicola si è trovato a gestire una rosa logorata dall’età, dal calciomercato, dal senso di precarietà nel massimo campionato. Soprattutto in attacco. Nella partita fondamentale per restare in A, ieri contro la Roma, è stato schierato titolare Mattia Destro, uno che in stagione non ha messo a segno neanche una misera rete. Caputo ha dimostrato di non essere più l’uomo da 21 gol messi a segno col Sassuolo nel 2020, ma purtroppo neanche quello da 16 reti nell’Empoli del 2017. Il suo contributo alla causa si è fermato a quota tre centri, due in più di Cambiaghi, la grande rivelazione dello scorso anno, e di Cerri, che era arrivato a gennaio dal Como per dare una mano a un reparto grande difficoltà. Alla fine l’uomo della salvezza e capocannoniere della squadra (con 6 centri) è stato Nyang, uno che non ha lasciato grandi ricordi in nessuno dei 12 club che ha girato in carriera. Anche per questo la salvezza ottenuta da Nicola ha le sembianze del miracolo. “Questa salvezza, per il percorso fatto, è una delle più belle” ha detto il tecnico a fine partita. E ha ragione.