Mafie

La ‘ndrangheta puntava sul bergamotto, blitz contro la cosca Latella-Ficara: 12 arresti. C’è anche il boss Mico Palumbo

La ‘ndrangheta puntava sul bergamotto, l’agrume per eccellenza che cresce e fruttifica solo lungo la costa dei gelsomini, in provincia di Reggio Calabria. Non è un caso che nell’inchiesta “Arangea” contro la cosca Latella-Ficara, condotta dai carabinieri che hanno arrestato 12 persone, la Dda abbia sequestrato anche tre società, tra cui la “NG Citrus” e la “Bergamotto di Fortugno Serena”. Quest’ultima, indagata, è la moglie di Carmelo Gullì detto “Memé”, uno dei destinatari dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere firmata dal gip Giovanna Sergi su richiesta del procuratore Giovanni Bombardieri (nella foto), dell’aggiunto Walter Ignazitto e del pm Nicola De Caria.

L’accusa per Serena Fortugno è di aver violato la legge in materia di misure di prevenzione. La sua azienda, così come la “Ng Citrus” intestata ai suoi familiari, in realtà sarebbe stata del marito Carmelo Gullì, ritenuto affiliato alla cosca Latella-Ficara e definito dai magistrati “socio di fatto” e “occulto gestore” pur figurando solamente “quale dipendente e lavoratore agricolo giornaliero”. Le intercettazioni di “Memè” mentre parla di quote e di fatture dicono altro: “Ho sempre la mia quota, – sono le parole di Gullì – ho sempre la mia quota sull’essenza, ho sempre la mia quota sul succo quindi ormai ci stiamo muovendo in maniera diversa! Abbiamo creato la società cooperativa già l’anno scorso la Ng Citrus”. E ancora: “La Bergamotto (intestazione dell’impresa, ndr) la uso, la lascio per il biologico, apposta… Solo per questo, non per altro, il biologico lo usiamo nella Bergamotto (impresa, ndr), mentre per il convenzionale usiamo la Ng Citrus”.

Le accuse dei magistrati – I magistrati non hanno dubbi: Carmelo Gullì non era un semplice dipendente della moglie ma “si interfacciava, in completa autonomia, con plurime società, disseminate su tutto il territorio italiano, in merito alla fornitura dei bergamotti, determinava il prezzo di vendita del prodotto e sollecitava agli acquirenti all’ingrosso il pagamento di pregresse forniture di bergamotto”. L’inchiesta, però, è molto più ampia. I carabinieri guidati dai colonnelli Valerio Palmieri e Antonio Merola, infatti, sono riusciti a ricostruire dinamiche e assetti del “locale” di Arangea e a girare le manette ai polsi al boss Demetrio Palumbo, detto “Mico”. Non è uno qualunque ma un nome noto nel panorama mafioso reggino. A 75 anni di cui 30 trascorsi in carcere per alcuni omicidi avvenuti nella seconda guerra di mafia, quando era al fianco dei boss Latella, Mico Palumbo è un pezzo da novanta. Scarcerato nel 2016 per fine pena, “era colui che autorizzava e decideva le nuove affiliazioni, si occupava della riorganizzazione della cosca con il conferimento delle due cariche di ‘contabile e capo società’ e si manifestava conoscitore esperto degli equilibri criminali”.

Le intercettazioni – Il profilo tracciato nell’ordinanza di custodia cautelare non rende merito al personaggio. Lo fanno di più le sue stesse intercettazioni dove rivendicava il suo ruolo e la sua competenza sul locale di Arangea. Al boss dei Ficareddi (Nino Ficara anche lui arrestato, ndr) che nutriva aspettative in merito alla spartizione del territorio, infatti, Mico Palumbo si era mostrato infastidito e ha fatto valere il peso di chi ha vissuto gli anni della guerra di mafia e poi si è seduto al tavolo con chi è rimasto in vita. Nel 2019 Palumbo racconta a un altro indagato, Vincenzo Autolitano, l’incontro avuto con Ficara: “I fatti sono questi. – dice – Io ho parlato con i morti, se vengono i morti e mi dicono cambiamo, io cambio. Se no io, non è che sono interessato a prendere o non prendere … ah! Io sono per la pace e per la correttezza…. È un buffone Nino”.

“Ci è sembrato di ritornare indietro di 30 anni”. Il procuratore aggiunto Walter Ignazitto non ha dubbi: “Questa indagine ci restituisce un ritorno al passato e a una certa ortodossia della ‘ndrangheta”. Di Palumbo, nell’ordinanza di custodia cautelare si legge “in virtù della sua posizione apicale, era anche in grado di interfacciarsi con autorevolezza con i principali esponenti delle altre articolazioni di ‘ndrangheta, che gli riconoscevano quella autorevolezza dovuta a chi è posto ai vertici di un sodalizio”. Secondo il procuratore Giovanni Bombardieri, l’inchiesta “ha incrociato varie fonti a partire da diversi collaboratori di giustizia. C’è addirittura un elenco delle imprese sottoposte a estorsione”.

Oltre alla gestione occulta di diverse imprese economiche, l’indagine dei carabinieri ha svelato un territorio sotto un controllo mafioso asfissiante e caratterizzato da un diffuso sistema estorsivo. Ancor prima di intraprendere un lavoro, gli imprenditori edili dovevano mettersi in regola e darne preventiva comunicazione alla ‘ndrangheta che ha tentato di infiltrarsi sia nel settore della grande distribuzione, con l’intento di imporre assunzioni. È emerso, infine, il cosiddetto “banco nuovo”, termine con il quale i vertici della ’ndrangheta intendevano la riorganizzazione delle cariche e delle doti all’interno del locale. Sono complessivamente 18 gli indagati nell’inchiesta “Arangea”: 11 sono finiti in carcere mentre uno ai domiciliari.