Sorella della morte, figlia della caducità. Così, in Leopardi. È la Moda, eterna ma mutevole, veloce ma lungimirante. E al centro, proprio insieme alla sorella morte, del noir “Elegante da morire”, primo romanzo della giornalista e saggista Renata Molho, presentato a Milano il 22 maggio insieme a Gentucca Bini e Michele Lupi ed edito per Baldini + Castoldi. “La moda è un inganno perenne, una bugia sempre scoperta e una contraddizione continua”, si legge nell’opera. Una contraddittorietà di cui Molho, nel suo esordio letterario, riesce a cogliere l’aspetto grottesco e surreale, con uno sguardo laterale e divertito, eppure non parodistico, e capace di offrire al lettore i dettagli più segreti e pruriginosi di un mondo in perenne divenire, che “necessita della sensibilità di un velista esperto, rapido nel leggere la più piccola variazione di colore del mare all’orizzonte”. Perché, come la morte, mira a disfare e a rimutare di continuo le cose terrene.
La voce nel libro è tagliente, precisa, sapiente. Ha l’eclettismo e il distacco partecipe di chi conosce un mondo ma sa guardarlo dall’esterno, facendone parte senza farsi assimilare. Proprio come l’autrice Renata Molho, capace di una distanza anche giocosa, fresca e dissacrante, propria di chi si è sempre tenuta, come racconta, un po’ a margine di quella vita. “Nel libro non ci sono, eppure c’è chi mi ha riconosciuto in ogni pagina. Del resto ciò che racconto è spesso ispirato ad aneddoti realmente accaduti, seppur romanzati e distorti”, spiega l’autrice a Ilfattoquotidiano.it.
Ne emerge una realtà chiaroscurale, divertente e affascinante, dove il mistero di un assassinio è insieme pretesto e occasione per raccontare anche la natura anfibia e polimorfa di sfilate, collezioni e mondanità. Anche per questo, racconta Molho, un altro titolo possibile per l’opera poteva essere “Paillettes e cinismo”: per il cinismo, “quanto di più elegante ci fosse”, di molti che popolano quegli ambienti. Ma anche per la capacità dell’autrice di raccontarlo senza moralismi.
Un cinismo, però, sempre mostrato attraverso la lente del grottesco. Come nella scena che apre il romanzo, dove l’uccisione di una direttrice di moda (e si noti che l’arma del delitto è una scarpa décolleté), avvenuta nel bagno di un esclusivo locale di Milano, non viene scoperta da nessuno degli invitati alla festa, tutti convinti si tratti di una performance artistica. Solo l’addetta alle pulizie, estranea a quell’ambiente e quindi capace di aderenza al reale, il giorno dopo comprende ciò che è accaduto: “Lei che non sapeva cosa producesse Studio Azzurro, all’immagine riflessa sul soffitto aveva capito subito che la donna stesa per terra, ormai in una pozza di sangue, altro non era che una morta vera”.
E così le colpe e le mancanze di un ambiente elitario e a volte apparentemente vuoto, si alternano a ironiche rivelazioni e a riferimenti colti, e i protagonisti – tutti dotati di nomi evocativi, da Madame Jasais Tout a Only Money, da Ernesto J’Adore a Gabrielle Levent Contraire – sono ritratti nelle loro cattiverie e debolezze, e forse proprio per questo risultano paradossalmente simpatici al lettore. Mentre il loro mondo, di cinismo e paillettes, viene eletto a specola privilegiata per comprendere la realtà, anche quando questa è nascosta proprio a chi di quel mondo fa parte.
Come la vittima Madame Jasais Tout, al secolo Gaetana Pizzuti. Di cui, grazie alle indagini del detective Scognamiglio, è offerto un ritratto ancora una volta mordace: “Si nutre solo di dolci e beve in continuazione succo di mirtillo con una spruzzata di Ginger. Ha i capelli lunghissimi di un rosso nostalgia, dichiara 48 anni da un paio di decenni, ma ne ha 70. La chirurgia plastica l’ha cristallizzata e ha sempre un’espressione stupita e gentile, anche quando dice cose tremende. Ha due gemelli di 40 anni (un maschio e una femmina), che spaccia per suoi cugini e che nasconde appena può, perché sono bruttini”.
O il proprietario del locale dove si consuma il delitto, lo stilista Ernesto J’Adore: “Di tutta quella scena surreale e cruenta, dominata dal nero, dall’oro e dal rosso, la cosa che innervosiva di più Ernesto era vedere che l’arma del delitto apparteneva a un altro marchio, non al suo”. O ancora: “Da quando Ernesto ne faceva uso (di Ayahuasca, ndr), le sue collezioni ricevevano più consensi. L’ufficio marketing, che non sapeva nulla di dimetiltriptamina o di altre sostanze psicotrope, era molto soddisfatto del giro d’affari notevolmente incrementato”.
Sempre nel Dialogo della Moda e della Morte di Leopardi, di quest’ultima viene detto che non vede bene: “Ho mala vista, e […] non posso usare occhiali, perché gl’Inglesi non ne fanno che mi valgano, e quando ne facessero, io non avrei dove me gl’incavalcassi”. Nel noir milanese di Rolho anche i protagonisti della moda sono miopi, non vedendo altro che ciò che gli è vicino. Ma come nell’Operetta morale, la Moda, invece, corre. E così vede sempre oltre: “La moda è un osservatorio straordinario, registra la realtà e la anticipa sempre”.