A ciascuno il suo genocidio… Questo 27 maggio ricorre un importante quanto significativo anniversario, reso ancor più emblematico dall’attualità geopolitica, dopo la clamorosa decisione della Corte Penale Internazionale dell’Aja che ha emesso cinque mandati d’arresto per Netanyahu; per il suo influente ministro della Difesa, Gallant; per Sinwar, il capo di Hamas a Gaza; per al Masri, comandante delle brigate Al Qassam; ed infine, per Haniyeh, responsabile dell’ufficio politico dell’organizzazione palestinese. Tutti e cinque simmetricamente sono stati accusati di “crimini di guerra” e di “crimini contro l’umanità”.
Era giovedì 27 maggio 1999, quando fu spiccato ufficialmente il primo mandato internazionale di cattura contro un capo di Stato in carica. Si trattava di Slobodan Milosevic, presidente della Serbia, accusato di genocidio nei vari conflitti balcanici in cui la Serbia aggredì le ex repubbliche della federazione jugoslava che si erano separate da Belgrado. In verità, furono tre distinti atti d’accusa: genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. I provvedimenti furono firmati dalla allora cinquantasettenne canadese Louise Arbour, procuratore capo del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (sede all’Aja, creato nel 1993 e chiuso nel 2017). La Arbour aveva ottenuto questa nomina nel 1996 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, restò in carica tre anni, poi si dimise perché aveva accettato la nomina alla Corte Suprema del Canada. Nel 2004 divenne Alto Commissario dell’Onu per i Diritti Umani (il predecessore, Sergio Vieira de Mello, era stato ucciso nel 2003 in un attentato a Bagdad). Al vertice del Tribunale penale internazionale le subentrò la ticinese Carla Del Ponte, vecchia amica di Giovanni Falcone, che vi restò sino al 2007.
I tre mandati, in realtà, erano stati firmati già il 22 maggio ma, per opportunità di carattere politico, si decise di renderli pubblici solo cinque giorni dopo. L’opinione pubblica europea, infatti, era in subbuglio perché la crisi del Kosovo stava degenerando e non credeva nell’efficacia della strategia Nato che aveva optato per massicci bombardamenti aerei, poiché invece di spianare la strada per la pace, acuiva le sollecitazioni nazionaliste e patriottiche di una Serbia che si atteggiava a vittima dell’Occidente (una sindrome che colpisce pure la Russia…). Dopo 71 giorni di raid, Milosevic fu costretto ad accettare il 3 giugno – una settimana dopo esser diventato il ricercato numero uno d’Europa – il piano di pace presentato dal finlandese Marrti Ahtisaari e, per conto dei tradizionali “amici” di Mosca, dal russo Victor Stepanovic Chernomyrdin, ex primo ministro dal 1992 al 1998. Il piano prevedeva la fine delle violenze e della repressione, la rapida ritirata di tutti i soldati, poliziotti e forze paramilitari serbe dal Kosovo, e il dispiegamento di una forza internazionale di sicurezza, la Kfor. L’accordo di Kumanovo (9 giugno) lasciava undici giorni di tempo ai serbi per sgomberare il Paese. Un vero e proprio diktat che gli estremisti nazionalisti serbi dovettero ingoiare.
Il bilancio di quel conflitto fu pesantissimo: oltre duemila morti e un milione di profughi, ed un Kosovo da ricostruire. Milosevic, compromesso politicamente per aver ceduto alle potenze occidentali, era ormai agli spiccioli del suo regime che crollò il 5 ottobre del 2000. Su ordine del nuovo premier serbo Zoran Dindić, ex sindaco di Belgrado, politico e filosofo leader del Partito Democratico, sarà arrestato il primo aprile del 2001, per essere trasferito all’Aja il 28 giugno dello stesso anno e incarcerato nella prigione di Scheveningen, per essere processato. Dindić, primo premier serbo ad essere democraticamente eletto dopo la Seconda Guerra Mondiale, verrà ammazzato il 12 marzo 2003. Qualcuno collegò l’attentato all’arresto di Milosevic, e la sua morte fu, in un certo senso, anche la morte della democrazia serba, uccisa sul nascere. Però Milosevic non fu il vero motivo. Dindić pagò con la vita il tentativo di sbaragliare uno dei più potenti clan malavitosi serbi, quello di Zemun e di membri dell’apparato di sicurezza dello Stato, con il tacito consenso di alcuni politici (nel dicembre del 2011, la madre e la sorella di Dindić denunciarono Nebojša Čović, vicepremier del governo guidato da Dindić e Velimir Ilić, che faceva parte della coalizione di governo). Quanto a Milosevic, morì nella sua cella olandese l’11 marzo del 2006, prima che venisse pronunciato il verdetto, dopo quattro anni d’istruzione e procedura. Tecnicamente, e paradossalmente, da un punto di vista penale, è morto innocente…
Ovviamente, occorre una rinfrescatina sul contesto che riguardò la spirale delle indagini avviate dalla procura internazionale dell’Aja culminate nell’infamante accusa di genocidio. Siamo alla fine del secolo scorso. Nell’ottobre del 1995, dopo tre anni di eccidi, e mostruosità come il massacro dei musulmani di Srebrenica, con Sarajevo assediata, i suoi abitanti stremati e decimati dalle forze serbe di Bosnia, dopo distruzioni e violenze efferate, gli Occidentali, sotto la pressione delle opinioni pubbliche e delle ong, reagiscono, sia pure tardivamente e con la coda di paglia (un’abitudine…) decidendo di usare le maniere forti. Ossia sfoderando l’arsenale. Sono gli americani a pretenderlo, constatata l’incapacità europea di mediare e pacificare.
Nell’agosto del 1995, una Forza di Reazione Rapida in sinergia con la Nato avvia martellamenti aerei sistematici delle posizioni serbe. I serbi di Bosnia capiscono che non hanno scampo. Accettano di negoziare la spartizione del Paese. Il cessate il fuoco è sottoscritto ad ottobre, il mese successivo viene organizzato negli Stati Uniti, a Dayton, un accordo di pace, il cui testo definitivo è siglato a Parigi il 14 dicembre del 1995. La Bosnia-Erzegovina diventa una Confederazione costituita dalla Federazione croato-musulmana e dalla Repubblica Serba di Bosnia, con una presidenza tricefala, sotto il controllo dell’Alto Commissario dell’Onu, allora Carlos Westendorp. L’ordine è garantito da una forza internazionale, l’Ifor. Radovan Karadzic, l’ex capo dei serbi bosniaci, colui che scatenò l’aggressione a Sarajevo e che ordinò di fare terra bruciata dei musulmani e dei croati, è mollato dai suoi, si dà alla macchia. Come il suo boia militare, il generale Ratko Mladic, “il macellaio di Srebrenica” (dove furono sterminati 8mila musulmani, sotto gli occhi indifferenti dei caschi blu danesi), che sarà l’ultimo grande latitante ad essere catturato. Incolpato fin dal 1995, è arrestato il 26 maggio del 2011 in Serbia, nel piccolo villaggio di Lazarevo, a nord di Belgrado. Tre anni prima era toccato a Karadzic, nel luglio del 2008, di essere preso nella capitale serba, dove si celava sotto la falsa identità del dottor David Dabic, specialista di terapie alternative.
Ma la pace, in quel tremendo fin di secolo, è una chimera. Se l’inferno bosniaco si è chetato, altrettanto non si può dire del Kosovo, focolaio di tensioni e violenze pronto a diventare un devastante incendio. Gli albanesi kosovari da anni si stanno battendo per ottenere dal governo di Belgrado il ritorno allo statuto d’autonomia che gli era stato tolto nel 1989. Speravano di riuscirci, ed imitare la sorte di Slovenia, Croazia, Bosnia, ormai non più sotto il giogo di Belgrado. L’autonomia, nelle speranze degli albanesi kosovari, avrebbe dovuto essere una tappa verso l’indipendenza. L’Uck, l’Armata di Liberazione albanese, vuole forzare i tempi e radicalizza lo scontro. Agli attentati contro gli edifici amministrativi o gli interessi serbi, Belgrado risponde con spedizioni punitive in larga scala contro i civili kosovari. Il conflitto si estende ai simboli religiosi delle comunità avverse, gli incendi delle moschee o delle chiese ortodosse diventano la quotidianità, così come il killeraggio e le razzie. Le distruzioni si susseguono, decine di migliaia di uomini delle forze speciali della polizia serba e delle truppe Jna (l’esercito popolare jugoslavo) entrano in Kosovo, l’ordine è di portare avanti la purificazione etnica, con la distruzione e il saccheggio dei villaggi musulmani, costringendo alla fuga gli abitanti. Lo sdegno internazionale costringe gli Stati Uniti ad intervenire, Washington invia a Belgrado un emissario (Richard Holbroke), il 13 ottobre 1998 firma con Slobodan Milosevic, il presidente serbo, un cessate il fuoco, che prevede l’invio di 2000 rappresentanti dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione (Ocse), il ritorno dei rifugiati e degli espulsi, così come l’apertura di negoziati.
Non funziona. Nessuno vuole quella tregua. Le violenze si susseguono, l’Uck continua con la strategia degli attentati ai quali risponde una repressione smisurata delle forze serbe. Altri negoziati sono avviati a Rambouillet, in Francia, il 6 febbraio del 1999, sotto l’egida del gruppo di contatto sull’ex Jugoslavia. Il 23 febbraio la conferenza chiude i battenti, è stata un fallimento completo, una perdita di tempo che ha permesso a Milosevic di preparare ed avviare il piano d’azione “Ferro di Cavallo”, strumento militare repressivo per costringere gli albanesi ad abbandonare il loro paese utilizzando il terrore e la pulizia etnica. L’operazione Ferro di Cavallo scatta all’inizio di marzo. L’Jna e la polizia serba sono integrati dai gruppi paramilitari del famigerato Arkan (alias Zeliko Raznatović) e dal leader estremista Vojislav Seselj, fondatore del partito Radicale Serbo di estrema destra. Inutilmente Holbrooke, i francesi e gli inglesi riescono a fermare Milosevic. Così, il 24 marzo la Nato lancia i primi raid aerei contro le infrastrutture serbe, i punti strategici militari e anche la stessa capitale (come posso testimoniare, ero stato inviato a “coprire” quegli eventi).
Contemporaneamente, al Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (Tpij) si decide di stringere i tempi e preparare i mandati contro i responsabili dei crimini di guerra. Sotto il profilo strettamente giuridico, quello del Tpij può essere considerata un’esperienza pioniera, di certo il successo più grande e concreto nella storia della giustizia internazionale. Questo tribunale fu creato dalla risoluzione 857 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, votata da tutti i suoi membri, anche dalla Russia, di cui era nota la storica vicinanza alla Serbia. Certo, ci fu chi vide in questa decisione la “cattiva coscienza” della comunità internazionale, in quanto si proponeva di giudicare le violenze che era stata incapace di controllare e fermare. Tuttavia, la fondazione di questa particolare istituzione (seguita, diciotto mesi dopo, dal Tribunale penale internazionale per il Ruanda) ha marcato un passo decisivo per la nascita, nel 2002, dell’attuale Corte Penale Internazionale che nel 2023 ha emesso un mandato contro Putin, e, a metà maggio del 2024, contro i vertici israeliani e di Hamas.
Le competenze del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia sono rimaste circoscritte sia nel tempo (la durata dei conflitti balcanici), sia nello spazio (i territori coinvolti dalle guerre), e, sul lato giuridico, si estendevano alle “violazioni delle leggi e delle pratiche di guerra” constatate durante i vari conflitti: Bosnia (1992-1995), Croazia (1991-1995), Kosovo (1998-1999). Nel mirino della procura, gli autori di “violazioni gravi del diritto umanitario internazionale”. Pragmaticamente, non tutti gli esecutori, bensì i responsabili delle direttive belliche e parabelliche.
All’inizio, i primi atti di accusa stilati dal primo procuratore, il sudafricano Richard Godstone, non colpirono nessuna personalità di rilievo, solo pesci piccoli. La svolta avvenne con Louise Arbour, che orientò la Camera d’accusa in una direzione molto politicizzata, incolpando alti responsabili delle varie parti in conflitto, e Carla Del Ponte proseguì su questa strada per evitare il rimprovero di parzialità antiserba. Con qualche errore. Per esempio, l’assenza di giustizia nei confronti dei serbi di Krajina, quando questa regione fu riconquistata dai croati, all’inizio di agosto del 1995, durante l’operazione “Tempesta”: 200mila serbi furono cacciati dalle loro case, molti soprusi e violenze furono commessi. Due generali croati, Ante Gotovina e Mladen Markac, furono condannati in prima istanza a pene detentive. Gotovina era un ex della Legione Straniera, poté sfruttare l’occulta protezione francese nella latitanza. Entrambi furono rilasciati in appello, nell’autunno del 2012. Nei loro casi, la Corte aveva ritenuto in prima istanza illegittimi i tiri di obice caduti aldilà dei 200 metri dagli obiettivi militari. Questa regola fu ricusata in appello, senza che venisse sostituita da un’altra formula. La ragione era, diciamo con un eufemismo, “pelosa”. Il presidente della Corte, l’americano Theodor Meron era preoccupato della tecnicità di tale “paletto”, voleva evitare un precedente giuridico che si sarebbe potuto applicare alle truppe Usa, o a quelle israeliane, specialmente se riguardavano bombardamenti di aree urbane, come a Gaza, o in certe città dell’Iraq, nel 2004.
Un’altra pecca riguardò le misteriose circostanze della morte di Milosevic in cella. L’ex presidente serbo soffriva di ipertensione, ma non pigliava le medicine per attenuarla. Al contrario, ingeriva deliberatamente dei farmaci che l’aggravano, nella speranza di essere messo in libertà condizionale per motivi di salute e poi scappare in Russia, a Mosca viveva il fratello (che ho intervistato). Il piano fallì. Il mistero? Qualcuno, all’interno del carcere, gli consegnava i farmaci, aggirando i controlli. In totale, il Tribunale per l’ex Jugoslavia ha giudicato 16 persone, dalla sua prima udienza (8 novembre 1995). Sembrano poche, il topolino partorito dalla montagna, ma fu invece molto, poiché le sfide da superare erano infinite e particolarmente complesse. I servizi segreti serbi, ma non solo loro, hanno sempre mantenuto i contatti e garantito protezioni ai latitanti del loro Paese, assicurando lunghe latitanze, malgrado abbiano sempre negato di averlo fatto. Comunque, era molto complicato ottenere degli arresti, soprattutto se si trattava di personaggi di primo piano, come Mladic. Inoltre, le lunghe cacce ai latitanti erano spesso affiancate da estenuanti trattative con le autorità dei loro paesi d’origine.
Dopo la guerra, i Paesi coinvolti volevano inizialmente voltar la pagina del nazionalismo e puntare al club europeo. Bruxelles fissò condizioni ben precise, tra le quali la piena e leale cooperazione col Tribunale penale internazionale. Fu dura. I criminali di guerra erano considerati eroi in patria. In Croazia ci furono importanti manifestazioni per difendere l’onore dei generali incolpati (nel 2002-2003), ma anche per reclamare la giusta “guerra patriottica” sul territorio croato, rinnegando qualsiasi sospetto su eventuali crimini di guerra o contro l’umanità. I governi monetizzarono la collaborazione con l’Aja, facendola passare come il prezzo da pagare per entrare nell’Unione europea, nel frattempo finanziavano la difesa degli accusati, sovvenzionandone le famiglie, considerandoli alla pari dei loro funzionari di Stato, sia civili che militari, veicolando il concetto che erano accusati di fatti commessi nell’esercizio delle loro funzioni. Atteggiamenti “umanitari” mantenuti anche dopo i riconoscimenti di colpevolezza e le condanne di certi accusati. Chi veniva scagionato o scarcerato dopo aver scontato la pena, tornava a casa accolto come eroe se non addirittura come martire.
Il Tribunale cessò la sua attività nel 2017. Il peso del male aveva giustificato il sovrappeso dell’apparato giudiziario, ciononostante fu ben chiaro che la giustizia internazionale era ed è sottoposta a possenti pressioni politiche, particolarmente quando si mira in alto. Milosevic e gli altri, in fondo, erano in alto, ma non molto. Il Tribunale, appena tentò di puntare sulla Nato o sugli intrecci balcanici delle grandi potenze, dovette frenare il suo zelo. Ed accontentarsi che mai nessuno, sul fronte dei valori giudiziari, era andato così lontano. L’erede Cpi sta andando oltre, obbligando il mondo a fare i conti con verità imbarazzanti, che dissesta le narrazioni in cui ci siamo cullati per decenni.