Dal rapporto Italia 2024 dell’Eurispes, reso noto nei giorni scorsi, emerge che il 37,3% delle famiglie ha un animale. Gli scienziati portoghesi avvertono del rischio superbatteri antibiotico-resistenti. Ma per fortuna, nessun vero contagio. Gli italiani amano avere accanto un animale: un cane per il 42% del campione intervistato, un gatto per il 34,4%. Potrebbe quindi essere una cattiva notizia quanto emerso dalle ricerche di un team portoghese, l’ultima delle quali è stata presentata allo European Congress of Clinical Microbiology & Infectious Diseases (ECCMID), svoltosi il 27-30 aprile a Barcellona. I nostri amici a quattro zampe potrebbero “passarci” batteri resistenti agli antibiotici, favorendo la diffusione di superbug che aggraverebbero il problema già esistente dell’antibiotico-resistenza. La buona notizia? “Essere colonizzati da ceppi batterici non significa avere un’infezione”, precisa la prof. Emilia Ghelardi, docente di microbiologia e di microbiologia clinica all’Università di Pisa. Ma procediamo con ordine, partendo dai dati degli studiosi portoghesi.

Case e ambulatori veterinari sotto la lente
Tutto è iniziato l’anno scorso con la ricerca del team portoghese guidato dalla microbiologa Juliana Menezes dell’università di Lisbona, presentata al congresso ECCMID a Copenaghen. Gli scienziati avevano sottoposto a esame 86 persone e i loro animali domestici (45 cani e 5 gatti) distribuiti tra Regno Unito e Portogallo. Ebbene, sei pet in Portogallo e uno nel Regno Unito condividevano con i padroni lo stesso tipo di batteri resistenti agli antibiotici. Esaminando i campioni fecali di animali e umani, gli studiosi hanno riscontrato la presenza di un’ampia famiglia di batteri, gli Enterobacterales (di cui fanno parte i temibili Escherichia coli e Klebsiella pneumoniae, responsabili il primo di malattie intestinali e il secondo di infezioni urinarie e della polmonite), produttori di carbapenemasi, enzima che causa resistenza ai carbapenemi, una classe di antibiotici ritenuta tra le ultime barriere di difesa. Gli studiosi si sono focalizzati anche su batteri resistenti a un’altra classe di antibiotici altrettanto importanti, le cefalosporine di terza generazione, impiegate tra l’altro per combattere polmonite, sepsi e meningite.

Tutti malati, allora? Macché, nonostante la condivisione degli stessi ceppi, come dimostrato dalle analisi genetiche, i padroni stavano tutti benissimo, mentre gli animali domestici avevano solo infezioni cutanee, urinarie o dei tessuti molli che sono guarite senza problemi. Lo stesso team si è poi occupato degli ambulatori veterinari, con una ricerca presentata al recente congresso di Lisbona. Sono stati effettuati campioni nasali e rettali sui lavoratori che si sono sottoposti volontariamente, e un campionamento ambientale sulle superfici di lavoro di 13 cliniche in Portogallo. Anche qui sono stati cercati batteri resistenti a varie classi di antibiotici, come i già citati Enterobacterales ma anche lo stafilococco o l’acinetobacter. Bene o male, la metà dei volontari era contaminata da stafilococco, ma non infetta, quindi non malata. Senza entrare ulteriormente nel dettaglio di dati piuttosto complessi, come interpretare questi risultati, che certamente possono destare preoccupazione nei proprietari di animali.

Un rischio ridotto
“In letteratura sono già stati riportati eventi di contaminazioni di questo tipo, che non sono quindi una novità assoluta”, spiega la prof. Ghelardi. “Sicuramente c’è un passaggio di ceppi batterici tra i proprietari e gli animali domestici, come dimostra la ricerca portoghese, la cui novità sta nell’aver isolato i batteri resistenti ai carbapenemi. Non è possibile tuttavia provare che l’infezione provenga dall’animale e non il contrario”. Di fatto molti dei ceppi rilevati sono presenti normalmente nel nostro organismo: è il caso degli Enterobacterales: come dire che entro certi limiti tali batteri non sono patologici. Tuttavia, in determinate condizioni le cose possono degenerare. “Se i soggetti colonizzati per qualche motivo non hanno le barriere integre, i ceppi batterici già presenti possono sostenere un’infezione”.

Parola d’ordine: igiene
Le normali pratiche d’igiene sono decisive
. “Se l’animale è malato, va tenuto in una stanza a parte ed evitare di stargli troppo vicino. Particolare attenzione va dedicata alla lettiera dei gatti. I resti vanno smaltiti correttamente nei sacchi, il recipiente va disinfettato con acqua bollente o alcol”, suggerisce la docente. Va da sé, quando si accarezzano gli animali – soprattutto se malati – bisogna evitare di toccarsi gli occhi e aver cura di lavarsi le mani, badando che anche i bambini lo facciano. “Come da prassi, vanno pulite bene le superfici. Per i pavimenti va bene la candeggina, per le superfici si possono usare oli essenziali dal potere antimicrobico”. Bastano poche gocce di lavanda, tea-tree, timo, limone, rosmarino ecc. diluite in acqua tiepida per avere la stanza pulita e profumata. Non ultimo, va ricordato che alla base dell’antibiotico-resistenza non ci sono tanto cani e gatti, quanto piuttosto l’eccesso di antibiotici assunti in modo inappropriato, anche attraverso il consumo di carne di animali allevati.

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