Times Higher Education* ha recentemente pubblicato una indagine sul controllo del lavoro universitario, dove si afferma che “la cultura del monitoraggio eccessivo delle università è una minaccia per la libertà accademica”. In pratica, la rivoluzione digitale crea nel corpo accademico la sensazione di essere sottoposto a uno sguardo vigile, un controllo continuo e pignolo, un giudizio inconfutabile sia quando insegna, sia quando fa ricerca. Non si tratta di una impressione epidermica, ma il risultato di una indagine demoscopica con la partecipazione di duemila e più accademici inglesi.

Il sondaggio dimostra come gli accademici siano ben consapevoli che le loro prestazioni di ricerca vengano monitorate. Se il 90% è convinto che il successo delle domande di finanziamento sia attentamente controllato, il 73% è certo che venga diligentemente vagliato anche l’allineamento della ricerca ai temi istituzionali, stabiliti da chi maneggia le leve del potere. E serpeggia il dubbio che questo ossessivo controllo pesi sulla libertà accademica, giacché il potenziale abuso di questi dati crea grande diffidenza.

Se il risultato è davvero quello di dover “guardare alle più ampie priorità di finanziamento, piuttosto che essere curiosi”, l’impatto è molto negativo. Potrei citare la serendipity, di cui ho più volte parlato su questo blog, ma non ne no bisogno. Non c’è dubbio alcuno che, senza curiosità, la conoscenza non progredisce. La perdita della curiosità alimenta un debito culturale che diventerà un enorme fardello per le prossime generazioni, già gravate dal debito finanziario esploso negli ultimi trent’anni ovunque nel mondo. E non sarà l’intelligenza artificiale a prevalere sul conformismo.

Il Grande Fratello danneggia anche la didattica. Il controllo incrociato dell’insegnamento si è trasformato da strumento utile a ogni professore per migliorarsi a una occulta minaccia della libertà d’insegnare, se vale l’esempio della università inglesi che sono ora in grado di monitorare se i singoli siti accademici all’interno del Virtual Learning Environment istituzionale (VLE) soddisfino o meno le linee guida. Quattro docenti su cinque sanno che la registrazione delle lezioni può essere usata per monitorarli e il 71% sa che viene fatto tramite Turnitin, un sistema di Intelligenza Artificiale.

A poco a poco, il mito del controllo di gestione — sempre sia lodato — si è consolidato anche in Italia, diventando il baluardo della “moderna” università. Nel nuovo millennio le università sono cresciute, ma la maggior parte delle risorse che hanno alimentato questa crescita sono state risucchiate dalla espansione della struttura amministrativa, non dalle facoltà o dalle scuole. Lo strumento informatico — che ora si avvale dell’Intelligenza Artificiale — è mutato rapidamente da strumento di semplificazione — in teoria, avrebbero dovuto ridurre i costi della burocrazia e agevolare la ricerca scientifica — in uno strumento di monitoraggio e di controllo.

Un uragano di retorica affligge ricercatori e docenti magnificando il ruolo essenziale del monitoraggio e della gestione delle prestazioni in nome della qualità. Molti resistono adottando cinicamente la semantica istituzionale senza abbracciarne lo spirito. Altri accettano a malincuore di perdere la libertà accademica e rinunciare alla soddisfazione professionale se l’alternativa è perdere il lavoro. Il rischio del disamore è elevato, laddove la passione è la qualità fondamentale di una figura sociale come quella dello studioso.

Come scrissi qualche anno fa in Morte e Resurrezione delle Università: dalle Università del Grande Fratello alla Slow University, nelle “Università del Grande Fratello” la massiccia espansione della burocrazia gestionale ha alimentato una vigorosa crescita di attività vuote di contenuti e perciò del tutto inutili, quando non sono addirittura idiote. Ora scopriamo che c’è anche il pericolo di degenerazioni ben peggiori. La scomparsa dei sindacati, da sempre debolissimi nel mondo accademico, non aiuta a contrastare queste eventuali tendenze.

La Magna Charta delle Università, siglata a Bologna in pompa magna nel 1998, è presto diventata carta straccia. Gli ideali accademici introdotti nel primo ‘800 da Wilhelm von Humboldt contro il modello dispotico caro a Napoleone sono affatto scomparsi assieme allo stesso modello humboldtiano. È il modello che ha garantito un enorme sviluppo scientifico, foriero di straordinarie innovazioni. E tutto ciò sta avvenendo in ossequio al modello utilitaristico che impera nelle università di mercato.

* C. Kissoon & T. Karran, Universities’ over-monitoring culture is a threat to academic freedom, THE, May 7, 2024

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