I Pfas sono stati trovati in tutte le regioni in cui sono stati cercati, eppure ad oggi in Italia è tutt’altro che capillare la rete dei controlli sulla presenza, nelle acque superficiali e sotterranee, delle sostanze poli e perfluoroalchiliche utilizzate dall’industria e note come ‘inquinanti eterni’ per la loro lunga persistenza nell’ambiente. Sebbene siano stati trovati nel 17% delle analisi eseguite tra il 2019 e il 2022 su campioni prelevati da fiumi, laghi e acque sotterranee, infatti, quasi il 70% delle verifiche è stato eseguito in sole quattro regioni del Nord Italia, ossia Veneto e Piemonte, interessate da contaminazioni gravi e accertate, a cui si aggiungono Lombardia e Friuli-Venezia Giulia. Nel resto d’Italia, le analisi sono sporadiche e poco numerose, con ampie aree non monitorate affatto. Il restante 30% delle analisi, infatti, è stato eseguito su campioni provenienti da altre 12 regioni, con una sproporzione in termini di numero e accuratezza.
Sono questi i risultati dell’ultima inchiesta che Greenpeace Italia presenta oggi a Roma. Basandosi sui dati delle Arpa regionali e delle province autonome presenti nel database Ispra, la ong ha raccolto gli esiti delle analisi eseguite dagli enti pubblici deputati in Italia tra il 2019 e il 2022 in merito alla presenza di Pfas nelle acque superficiali e sotterranee. “I pochi e frammentati rendono tuttora sconosciuta la reale portata della contaminazione” spiega a ilfattoquotidiano.it Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace.
Le regioni dove sono stati trovati Pfas dal 2019 al 2022 – Si tratta di un fenomeno diffuso, che riguarda tutte le regioni italiane in cui queste sostanze sono state cercate. Per ogni singolo campione si indaga sulla presenza di più sostanze e, quindi, ad esso corrispondono più analisi: quasi 18mila sono state quelle risultate positive. “È importante sottolineare che la percentuale di valori positivi ai Pfas varia da regione a regione anche a causa dell’accuratezza della misurazione dell’ente pubblico”, commenta Ungherese. Come si spiega nel report, “più una Regione fa controlli e utilizza strumenti all’avanguardia (ovvero con limiti di rilevabilità analitica, il cosiddetto LOQ, più basso) più è probabile che venga rilevata una positività”. Di fatto, Basilicata (31%), Veneto (30%) e Liguria (30%) sono le regioni con la più alta percentuale di analisi positive rispetto ai controlli effettuati tra il 2019 e il 2022 dagli enti preposti sui corpi idrici italiani. Altre sei regioni presentano un tasso di positività superiore al 10% delle analisi eseguite nel periodo preso in considerazione: Lombardia, Toscana, Lazio, Umbria, Abruzzo, Campania.
La sproporzione nei controlli. In Calabria predisposti solo nel 2024 – Mentre nelle quattro regioni del Nord Italia si sono svolti i due terzi delle analisi fatte in tutto il territorio nazionale tra il 2019 e il 2022, nelle altre regioni il contributo al totale delle analisi effettuate in Italia non supera il 10%. In Puglia, Sardegna, Molise e Calabria, stando ai dati Ispra, dal 2017 al 2022 non risulta alcun controllo sui Pfas nei corpi idrici. “Greenpeace Italia ha chiesto informazioni alle Arpa regionali. Puglia e Sardegna hanno fornito alcuni dati per il triennio 2020-2022 – racconta Ungherese – ma quelli comunicati da Arpa Puglia mostrano controlli decisamente esigui. Solo sei campionamenti in cinque anni”.
Non solo: per Molise e Calabria anche dagli enti regionali non risulta alcun controllo effettuato. La Calabria, in realtà, ha predisposto la ricerca dei Pfas nelle acque superficiali a partire dal 2024. Controlli che non sono solo frammentati, ma anche poco frequenti: secondo quanto rilevato da Ispra, sono solo dieci le Regioni che tra il 2019 e il 2022 hanno effettuato campionamenti ogni anno. Si tratta di Veneto, Lombardia, Piemonte, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Trentino-Alto Adige, Toscana, Lazio, Umbria, Valle d’Aosta. In tutti gli altri casi il monitoraggio è discontinuo o iniziato solo nel 2022, come accaduto nelle Marche e in Abruzzo. Una tendenza che non sembra in miglioramento, visto che il numero delle regioni impegnate in attività di monitoraggio non è cresciuto negli ultimi anni.
Le situazioni più critiche (secondo i dati disponibili) – Per cercare di capire quali sono i dati più critici, tenendo conto solo di quelli a disposizione sul database di Ispra, Greenpeace Italia ha ristretto il campo di analisi all’anno più recente disponibile per tutte le regioni (ossia il 2022), alle sole analisi delle acque superficiali e alla ricerca di due molecole appartenenti al gruppo Pfas, il Pfoa e il Pfos, di recente classificati dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro rispettivamente come cancerogeno e possibile cancerogeno. Il primo risultato non sorprende: è il Veneto la regione dove sono state trovate nel 2022 le più alte concentrazioni di Pfoa e Pfos, teatro di un inquinamento ambientale che coinvolge i corpi idrici ma anche le acque potabili di una vasta area compresa tra le province di Vicenza, Verona e Padova. Oltre che in Veneto, sono riscontrate concentrazioni particolarmente elevate di Pfoa e Pfos in Piemonte.
“Nel 2022 queste due molecole sono state trovate in alte concentrazioni in specifiche aree della regione – si spiega nel report – ovvero nei corpi idrici interessati dagli scarichi dell’azienda chimica Solvay (oggi Syensqo), unica azienda produttrice attiva di Pfas in Italia”. Oltre al Veneto e alla zona piemontese contigua alle attività di Solvay (Torrente Bormida di Spingo e fiume Tanaro, nelle vicinanze di Alessandria), le più alte concentrazioni di Pfoa, sono state trovate in Lombardia. “Ma accanto a questa Regione, dove Greenpeace Italia ha già verificato la presenza di Pfas nelle acque a uso umano – spiega Ungherese – contaminazioni compaiono anche in Emilia-Romagna e Lazio”. Nel dettaglio, nel 2022 il Pfoa è stato rilevato in Piemonte nel fiume Dora Baltea (Vercelli) e nel Torrente Scrivia (Alessandria), in Emilia Romagna, nel Comune di Savignano, frazione Capanni (Forlì-Cesena), in Lombardia, nel torrente Molgora, a Lavagna e Cavaione (Milano) e nel Comune di Ottobiano (Pavia) e nel Lazio, a Roma, nei pressi di Ponte Galeria.
Il precedente: le contaminazioni rilevate in tutte le regioni dal 2018 – “Stupisce che il sistema di monitoraggi e controlli non sia oggi capillare e presente in tutte le regioni – commenta Ungherese – dato che gli enti preposti da almeno sei anni conoscono la portata della contaminazione da Pfas nei corpi idrici italiani”. Era il 2018 quando il primo monitoraggio nazionale aveva mostrato come la contaminazione da Pfas fosse un fenomeno diffuso che riguardava tutte le regioni italiane, nessuna esclusa. “Già allora emersero numerose criticità – racconta Ungherese – anche in regioni non oggetto di monitoraggi periodici e capillari negli anni successivi”.
Le sostanze ricercate furono dodici, ma solo per sei di queste (tra i cui Pfoa e Pfos) esistevano valori di standard di qualità ambientale. I Pfas vennero ritrovati nel 14% delle 1.110 analisi effettuate, interessando tutte le regioni e le province autonome indagate. In alcune delle regioni erano già note da anni alcune criticità legate alla contaminazione da Pfas (Veneto, Toscana e Piemonte già risultavano tra queste grazie a uno studio condotto dal Cnr-Irsa nel 2013) le indagini di Ispra confermarono una situazione tutt’altro che rassicurante. Fu accertata la presenza di Pfos in Veneto, Basilicata, Campania, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Umbria, Provincia Autonoma di Trento, Provincia Autonoma di Bolzano. In particolare, in Veneto, Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna, Lazio e Liguria fu rilevato un numero più alto di stazioni in cui la concentrazione di Pfos era superiore a 0.65 nanogrammi per litro, il valore di riferimento per il corrispondente SQA.
Anche il Pfoa fu trovato quasi ovunque, ma in concentrazioni più elevate in Veneto. “Il quadro della contaminazione nel Paese appariva già problematico fin da questo primo monitoraggio pubblicato ben sei anni fa. Eppure dopo questo primo screening – aggiunge Ungherese – solo la metà delle Regioni ha effettuato controlli annualmente, mentre in tutti gli altri casi siamo di fronte ad attività di monitoraggio episodiche, incostanti o in alcuni casi del tutto assenti. Il quadro complessivo dipinge un’Italia in cui ogni singola Regione sembra muoversi in una cornice incoerente e senza coordinamento centrale”. D’altronde, in Italia non solo manca un divieto per l’uso e la produzione di Pfas, ma non si vedono all’orizzonte neppure provvedimenti nazionali efficaci a tutela della salute delle persone e dell’ambiente.