Lanciare segnali per tenere alta l’attenzione sulle minacce. Mentre sul fronte ucraino si gioca una delle fasi decisive della guerra voluta da Mosca, in Polonia la preoccupazione resta altissima. La terra di confine dell’Unione europea, di fronte alla continua escalation verbale e non solo, sceglie l’ambiguità. Meno di un mese fa, di ritorno da un viaggio negli Usa, il ministro degli Esteri polacco Radoslaw Sikorski non ha escluso la possibilità di inviare truppe a Kiev in caso di necessità, di fatto accettando la possibilità che il conflitto si allarghi. Oggi, intervistato da la Repubblica e il consorzio Lena, insiste: “Non dovremmo escluderlo. Dovremmo lasciare Putin con il fiato sospeso sulle nostre intenzioni”. Parole che inevitabilmente hanno un peso in una fase molto delicata. Ma che giocano volutamente sul dubbio, proprio come già fatto da Emmanuel Macron. Sono segnali chiari, ma che per ora, dicono fonti del governo Tusk a ilfattoquotidiano.it, non rivelano reali e concrete intenzioni: il destinatario è il presidente russo e la strategia è quella di farsi sentire fermi e determinati in caso in cui ci fosse un allargamento della guerra. Un’ipotesi che, assicurano, è solo virtuale e che non stanno prendendo in considerazione (con lo stesso primo ministro Donald Tusk che spingerebbe per la prudenza nelle dichiarazioni).

Solo lunedì 27 maggio, il vice ministro della Difesa Cezary Tomczyk ha detto parole che suonano opposte, intervenendo a Varsavia al forum Europe Talks nella sede di Gazeta Wyborcza, uno dei più importanti quotidiani in Polonia fondato nel 1989 dall’ex dirigente di Solidarnosc Adam Michnik. “Non manderemo soldati in Ucraina. In questo momento non è un tema per noi”, è stata la sua dichiarazione netta di fronte alle domande dei giornalisti. E non solo: “Non intendiamo colpire i missili russi sul nostro territorio”, ha aggiunto. Un apparente passo indietro rispetto alle uscite del governo degli ultimi mesi. Ma dietro uscite che sembrano andare in direzioni opposte, l’esecutivo garantisce che c’è una volontà unica di mettere in difficoltà gli avversari. Con l’ossessione di non mostrarsi pronti a cedere. Soprattutto in una fase in cui l’opinione pubblica europea sembra sempre più disinteressata al tema. A esporsi di più è la vice agli Esteri, Henryka Mościcka-Dendys che non segue la stessa chiusura del collega della Difesa: “Il punto principale della Polonia è il sostegno all’Ucraina, che non deve perdere questa guerra. Quindi tutti i segnali inviati dalla Francia o da altri partner devono essere percepiti come deterrenti nei confronti della Russia. Mosca deve capire che vediamo seriamente la gestione dell’agenda ucraina”. Dietro le dichiarazioni diplomatiche emergono le preoccupazioni: dai disagi al confine con la Bielorussia dove, sostengono, non si vedeva una pressione di migranti così alta dal 2021 alla convinzione che Putin non accetterà mai un compromesso al ribasso che possa danneggiare quella che definiscono l’ultima spinta imperialista. Per questo la strategia è quella di inviare segnali che sembrano ambigui e contrastanti ma che, nelle intenzioni, dovrebbero convincere il presidente russo che Varsavia, se il conflitto dovesse allargarsi, non si fermerà. E alla base c’è la credenza, confermata all’interno dell’esecutivo, che la minaccia nucleare di Putin non sia tangibile perché sarebbe un punto di non ritorno che non conviene a Mosca prima di tutto. “Vogliono dividerci e per questo costruiscono questa idea spaventosa”, ha detto il vice ministro della Difesa. “Fa parte della guerra ibrida”. Per questo non temono i segnali e le provocazioni e apprezzano le mosse di Macron che su questo è andato avanti prima di tutti.

In Polonia, della strada diplomatica non si parla. Perché nessuno, in un Paese così permeato di opposizione a Mosca e soprattutto così terrorizzato dall’ipotesi, crede possa esserci una vera apertura. Tomczyk, interpellato sulla necessità o meno che l’Ue lavori a un tavolo di pace, ha ribadito che la strada al momento per loro è un’altra: “Penso che l’Europa ora dovrebbe fare diverse cose. E non solo pensare a mandare truppe. Costruire la difesa, innanzitutto. Poi spendere il 2% del Pil in armi: è molto importante per noi, soprattutto perché spenderemo il 4 per cento. E’ una grossa cifra per la società polacca e cerchiamo di informare ogni giorno i cittadini polacchi perché è necessario. Abbiamo raddoppiato l’esercito negli ultimi 10 anni, quindi sappiamo dove viviamo. E penso che dobbiamo costruire un fondo speciale nell’Ue come è successo dopo il Coronavirus. Per sostenere i confini, ma anche gli eserciti in Europa. E dovremmo andare più veloci, non abbiamo tempo”. E questo riguarda anche l’Italia: secondo alcune ricostruzioni, il primo ministro Donald Tusk nelle scorse settimane ha chiesto a Giorgia Meloni un maggiore impegno sulle armi. Intanto la Polonia continua a fortificarsi. Solo ieri, lo stesso ministero della Difesa aveva dato alcuni dettagli in più sul piano per rafforzare la sorveglianza di circa 700 km ai confini con Russia e Bielorussia: noto come Shield-East (scudo Est), dovrà svilupparsi entro il 2028 e prevede una sorveglianza anti-droni, bunker e una difesa militare di terra. Ma anche azioni dirette a contrastare la cosiddetta cyber war. Il governo lo ritiene necessario denunciando “azioni ostili di Mosca e Minsk”, come l’invio di migranti al confine per destabilizzare l’Ue, ma anche attacchi informatici: “Siamo uno dei tre Paesi nel mondo che ne subiscono di più nel mondo”, ha detto Tomczyk, “abbiamo 2500 soldati specializzati che si occupano solo di questo”.

E la mobilitazione deve riguardare anche i singoli cittadini: “Vogliamo investire circa 2 miliardi di euro per costruire rifugi per le persone”, per “aiutarli a costruirne altri da soli” e per formarli “nella difesa personale”. Un progetto annunciato, ma che ancora non è stato messo in campo ufficialmente. “Penso”, ha aggiunto, “che ognuno dovrebbe avere in testa la conoscenza di cosa fare se dovesse succedere qualcosa e il 90% della società ora non lo sa”. Ma sulla possibilità che il conflitto si allarghi, Tomczyk ha dichiarato: “Penso che costruiscano questo grande esercito per essere pronti e, se dovesse esserci bisogno, per attaccare la Nato. Penso che sia possibile, perché lo insegna la storia, ed è sempre stato lo stesso con i russi: hanno grossi problemi all’inizio e grossi numeri alla fine. Ed è molto difficile fermare questa macchina di guerra quando la si costruisce. Hanno centinaia di migliaia di soldati sparsi in Europa e Asia, costruisci fabbriche nel Paese, ma anche relazioni bilaterali con la Cina. E cosa succede alla fine? C’è l’escalation, non si ferma”. Quindi, ha concluso: “Se riusciamo a dimostrare ai russi che la Nato è forte, e con l’adesione di Svezia e Finlandia lo abbiamo fatto, possiamo dimostrare che siamo pronti a tutto. I russi capiscono solo il potere”. Dare messaggi, senza che siano seguiti da reali intenzioni, assicurano. Ma che, nel mentre, fanno crescere sempre di più la tensione in un contesto in cui è difficile prevedere le conseguenze.

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