Interno giorno. Anzi no. È giorno ma non è interno né esterno. È tutto virtuale, anzi. È una chat di una classe di scuola media di Messina. I compagni si scambiano informazioni e in mezzo a queste compare un commento di uno dei ragazzini che fa degli esplicitissimi riferimenti sessuali nei confronti della mamma di un suo compagno. Parla di misure di questo e di quello con volgarità e nonchalance. I compagni non fanno una piega. Qualcuno, anzi, mette perfino un like. Il compagno la cui mamma viene così volgarmente apostrofata poco dopo scoppierà a piangere, senza motivo, in casa. La madre preoccupata chiede cosa sia successo e si ritrova a leggere i volgari commenti su di sé.

Scoperto l’accaduto la storia procede in un’altra chat, questa volta è quella delle mamme, dove la donna denuncia quanto successo. Ricevendo pochissima solidarietà, le scuse dei genitori del ragazzino che però puntano, manco a dirlo, a minimizzare. Così, la donna si rivolge anche alla responsabile degli insegnanti, ricevendo, anche qui, manco a dirlo, le critiche dei genitori.

Succede in quel profondo sud in cui fino a non molti anni fa, gli adolescenti maschi imparavano molto presto ad usare un linguaggio molto volgare, sempre con sfondo sessuale, sempre riferito a donne, spesso alle compagne di classe. Un linguaggio troppo spesso tollerato, al quale finivano assuefatte anche le ragazzine. Da questo episodio, tuttavia, sembra che negli anni non sia cambiato nulla. Mentre il resto del mondo viaggia verso eccessi di zelo da politically correct in una città siciliana la mamma del compagno di classe può essere apostrofata senza colpo ferire. Solo un modo per scherzare, magari pesante. Ma niente di più. Che sarà mai. Quello messinese pare dunque un contesto del tutto impermeabili al mondo esterno e del tutto immutabile.

La sensibilità del compagno che poi scoppia a piangere a casa, non è di quasi alcun interesse.

Lo sono i voti. Quelli soli sembrano interessare. Le performance didattiche. Che esseri umani stiamo formando, invece, è di scarso interesse.
Eppure la vicenda ha ferito e agitato un’intera famiglia, dalla mamma, violata da apprezzamenti sessuali fatti da un ragazzino, al figlio, la cui mamma è stata usata come clava per colpirlo. Ma meglio minimizzare. Che importa se questo episodio ha creato un contesto di tensione in cui le vittime non hanno trovato la solidarietà necessaria per sentirsi al sicuro. Che importa delle vittime ad una società in cui il più violento, il più bullo è ancora riconosciuto come il più forte e quindi il più apprezzabile all’interno di qualsiasi contesto, dai più giovani, ai più grandi, dai contesti scolastici a tutti gli altri in cui il vivere comune resta appannaggio di rapporti di forza?

Che importa tutto questo, fino a che, malauguratamente, non tocca a noi? Chi ci sarà a sostenerci quando accadrà anche a noi? Questo, almeno questo, può essere di qualche interesse, chissà. Intanto la mamma in questione desidera lanciare un appello, al quale voglio dare ampio spazio. Eccolo:

“Sono una mamma, una figlia, una moglie, un’amica, una sorella, una persona. E vorrei fare un appello.
Mio figlio ha ricevuto un messaggio da parte del compagno di classe in cui io, sua mamma, sono stata strumentalizzata, in modo che successivamente è stato definito uno scherzo, per dargli fastidio, provocarlo, fargli del male. Il messaggio è stato accolto da altri compagni, è stato messo in evidenza nel loro gruppo, hanno commentato continuando ad infierire su di me, e quindi su di lui. Nessuno di loro, ragazzi, ha provato a bloccare la conversazione.
Questo episodio non è unico. Due anni fa, quando ho perso cappelli a causa della chemioterapia, lo stesso ragazzo che ha scritto il messaggio dell’altro giorno, ha detto a mio figlio che mi coprivo la testa per la vergogna.

Per questo vorrei chiedere a voi genitori, voi che vi mostrate indifferenti quando vi metto davanti a fatti simili, perché non volete prendere parte, come se esistesse una parte da prendere, e poi, solo in privato, mi mandate dei messaggi dicendovi scioccati da parole così forti, così orribili, si mi rivolgo proprio a voi e vi chiedo: cos’è la vera vergogna?

Forse la vergogna è l’incoerenza, quella che vi porta a non dichiararvi pubblicamente ma vi spinge a farlo solo alle spalle dei vostri amici o conoscenti?
O forse la vergogna è non chiedere scusa di persona? O può anche darsi che la vergogna sia preoccuparsi di più del voto in condotta piuttosto che dei sentimenti feriti delle altre persone? Io credo che più che vergogna sia un vero peccato che ai ragazzi di oggi venga insegnato a scegliere con cura i propri vestiti, le scarpe giuste da abbinare alla tuta, ma non le parole che usano. Le figlie che sono le prime, in quanto future donne, a dover avere la sensibilità giusta quanto si parla di un’altra donna, dimostrando solidarietà e rispetto, diventano volgari perché confuse dal concetto di parità dei sessi.

Oggi non parlo solo a nome mio. Vorrei dare voce a tutte le mamme, con lavori umili, magari separate o straniere come me. Vorrei dare voce a tutte quelle mamme e ai loro figli che subiscono queste offese gravissime, questo linguaggio così violento completamente in silenzio, per timore di moltiplicare le offese, ovvero per pure intimidazione. In nome loro io vi chiedo di educare i nostri figli al rispetto. Rispetto del prossimo e di se stessi.

Non c’è una giustificazione valida per chi ferisce gratuitamente, non c’è una spiegazione alla violenza, anche quella verbale. Ma ci deve essere una reazione, forte e contraria, perché non succeda più niente di simile. Per creare un contesto più sano per la vita dei nostri figli e di noi tutti”.

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