Sulla copertina di Non me la bevo (Mondadori) c’è un calice, una specie di grand ballon, con fusto e bevante ribaltati all’ingiù. E il vino rossastro che c’è dentro sembra come non scendere e rimanere appiccicato dentro al calice. Insomma, questo vino non s’ha da bere. Adottiamo questa piccola forzatura metaforica perché il saggio dedicato al vino di Michele A. Fino, professore associato di diritto europeo all’università di Pollenzo, tutto sembra fuorché un’amorevole rapporto con quel nettare che sgorga millenario dalla fermentazione alcolica dei mosti ricavati dalle uve. Va subito precisato che Fino – come il collega Alberto Grandi – appartiene a quella corrente “iconoclasta” della storia del cibo che è letteralmente imbestialita nei confronti del nostalgismo per l’autenticità di bevande e alimenti, nonché è fautrice dell’abbattimento della mitologia del “gastronazionalismo” per la quale esistono tradizioni italiane in cucina vecchie di secoli (per esempio: la carbonara che sarebbe nata negli anni cinquanta e importata dai soldati americani nel Lazio).
Picconata dopo picconata, ecco il vino. Intanto il vademecum di Fino ha un chiaro e incontrovertibile leitmotiv salutistico che nemmeno la signorina Rottenmaier: “il fatto che un consumo moderato di vino rosso abbia effetti positivi documentati non può essere tradotto nello slogan ‘il vino fa bene’ o peggio ancora nell’invito a iniziare a bere nella speranza di ottenere tali benefici”. Insomma, concediamoci pure un bicchieretto in compagnia (per rinvigorire le più volte citate “relazioni”, durante le quali chissà perché non si beve un bicchier d’acqua…) ma l’alcol fa male. Volendo, non c’era bisogno né del libro di Fino, né di questo articolo, per un dato così lapalissiano. Eppure l’essere umano è debole, perché spesso fatica a dire no alle tentazioni, figuriamoci a quelle del proprio gusto e palato. Insomma il vino è lì, con le sue componenti alcoliche e la sua, nonostante le picconate, lunga lunghissima storia.
In Non me la bevo molta di questa storia è riportata e mostrata con ricchi approfondimenti sempre però con l’idea che il passato e il relativo passatismo siano come trappole cognitive e retoriche. Ad esempio che il fusto della vite americana abbia salvato la tenuta, pardon la vita, delle viti italiane sulla fine del diciannovesimo secolo dall’affermarsi devastante di parassiti e funghi è sì un dato oggettivo generalmente non troppo evidenziato, ma non è nemmeno quel dato mai raccontato e totalizzante che ha riscritto quelle radici enologiche che già in una parte d’Italia (almeno nel Regno dei Savoia) avevano attecchito e che in buona misura sono rimasti tali. Per essere chiari: ogni elemento dell’esistente e della storia si trasforma di continuo e non rimane mai identico a se stesso, un altro conto è la sua cancellazione e sostituzione ex novo. Per questo diventa davvero molto interessante quella che pare essere una sorta di difesa più o meno diretta dell’autore rispetto alla categoria del vino industriale e biologico rispetto al vino biodinamico e/o naturale.
Il vino industriale è quel prodotto per la grande distribuzione che si ripresenta a prezzi accessibili e sempre identico a se stesso nello scorrere degli anni. E quando parliamo di standardizzazione del gusto parliamo di un fenomeno reale che va dal bric del vino da tavola del supermercato alle grandi bottiglie di pregio, tutte accomunate dalla possibilità, vista la mancanza di una legislazione che impone di apporre in etichetta ogni singola componente usata tra vigna e cantina, di alterazioni chimiche più o meno conosciute. Fino, ça va sans dire, lancia i suoi strali contro la “sfiducia verso scienza e tecnica” ovvero “la venerazione per ciò che sa di antico” alla Mario Soldati e contro quel concetto di “vino giusto” coniato con un libro da Luigi Veronelli con il mantra della “prossimità tra coltivazione della vite e trasformazione del suo frutto”. Ed è nell’evocare come babau per l’industria del vino tradizionale Soldati e Veronelli, vissuti oltre mezzo secolo fa il primo e fino a vent’anni fa il secondo, definendoli come gli antesignani di “mode” e “marketing” del vino cosiddetto “contadino” (“la sua idea di superiorità, vigorosamente romantica, rassicura perché più o meno consapevolmente alimenta la nostalgia”) è il vero nucleo argomentativo di Non me la bevo. Infatti se uno spettro si aggira per le enoteche e ristoranti italiani è proprio quello del vino biodinamico e naturale.
Del primo Fino ne stigmatizza l’aspetto “spirituale” e la mancanza di base scientifica – anche se poi nelle vigne per la biodinamica è tutta una questione di … letame -; del secondo (non essendo una vera e propria categoria dai tratti definiti, ma solo un tentativo di produrre vino arrivando ad un intervento chimico quasi inesistente) invece ne stigmatizza l’anarchia produttiva e procedurale, perfino riesumando il confronto con i principi della biodinamica (improvvisamente qui positivi!) parlando prima di “esplosione” tra Europa e Usa, poi un attimo dopo sostenendo che tanto in termini di mercato è “solo il 2%”. Insomma Non me la bevo sembra l’alzata di scudi e l’insofferenza del piccolo chimico contro il ritorno ad un’idea di gusto totalmente libera da decenni di critica enologica ingessata, contro un’idea economica di intendere il vino chiaramente dal basso e deglobalizzante (curioso che “il gruppo” che in Italia si è dato “un disciplinare” per il vino naturale non venga citato quando oltre a quello ce ne sono anche un altro paio). Spiace, infatti, che questa scaramuccia tra vini industriali e vineria eretica avvenga in Italia (in Francia ci hanno oramai messo una pietra sopra) e che soprattutto provenga dagli anti gastronazionalisti: iconoclasti per pizza, carbonara e dieta mediterranea, ma quando si tratta di vino in overdose di bentonite e colla di pesce.