All’ospedale Borgo Trento di Verona è tornato a colpire il Citrobacter Koseri, che tra il 2019 e il 2020 ha causato la morte di quattro neonati e gravi danni cerebrali ad altri nove piccoli pazienti ricoverati nel reparto di terapia intensiva dell’Ospedale della Donna e del Bambino. A più di tre settimane dalla scoperta di tre casi, fortunatamente tenuti sotto controllo e senza conseguenze, la conferma che si tratti dello stesso batterio è venuta da un comunicato dell’Azienda ospedaliera Universitaria Integrata di Verona. Gli esiti delle analisi microbiologiche eseguite al Gemelli di Roma sono stati resi pubblici il 28 maggio.
Il comunicato riferisce che si tratta di una “anticipazione dell’indagine genomica sul microrganismo responsabile della colonizzazione”. Poi la conferma: “Si tratta di Citrobacter koseri, così come era stato già detto il 5 maggio, un batterio che è fratello ma non gemello di quello che nel 2020 ha causato l’epidemia. L’indagine ha infatti confermato che sono molto simili ma non uguali”. La nota si dilunga a spiegare che il batterio “è ubiquitario, nel senso che si trova ovunque e prolifera nell’intestino umano e animale. La colonizzazione di inizio maggio è dovuta a un microorganismo che può essere arrivato in ospedale attraverso molteplici vie”.
La sottolineatura serve ad allontanare il sospetto che il batterio sia stato generato all’interno del reparto, per mancanza di pulizia o igiene, come, accusano le parti lese, sembra sia avvenuto cinque anni fa. “È tecnicamente sbagliato dire che il Citrobacter koseri sia sempre rimasto annidato in Terapia intensiva neonatale dal 2020 ad oggi. Da allora la sorveglianza dei rigidi protocolli interni ha sempre cercato il batterio e per 4 anni non è mai stato trovato nell’ambiente. Nemmeno dai primi di maggio ad oggi, quando dopo l’identificazione del batterio nei tamponi di sorveglianza dei tre prematuri senza infezione sono scattate le misure straordinarie”.
La ricerca ha escluso la presenza nell’acqua potabile, nei rubinetti e nei sifoni di scarico. Ugualmente, “non c’è traccia sulle superfici (lavandini, culle, termoculle, dispositivi elettromedicali, ecc), e i campioni sono sempre stati negativi persino sull’aria (nella remota ipotesi della vaporizzazione)”. Situazione sotto controllo? “Dopo i primi tre prematuri positivi ai tamponi intestinali, tutti i neonati presenti sono risultati negativi e nessun altro ricoverato è stato contagiato”. La struttura sanitaria elenca gli interventi eseguiti, tra cui l’isolamento del reparto, l’impossibilità di partorire per le gestanti sotto le 34 settimane, pulizie e disinfestazioni straordinarie. Spiega anche che “gli ultimi dati disponibili del 2022 mostrano come, a fronte del 13,2 per cento di infezioni in Italia, a Verona il rischio sia attestato al 3,2 per cento”.
Non è però bastato un comunicato a togliere le preoccupazioni. Francesca Frezza, la coraggiosa mamma veronese che nel 2019 aveva reso pubblico il caso della propria bambina nata a Verona e deceduta all’ospedale di Genova, ha commentato: “Che cosa si aspetta a chiudere il reparto, che muoia un altro bambino, che si ripeta la tragedia che ha colpito mia figlia Nina?”. I parlamentari Alessia Ambrosi di Fratelli d’Italia e Andrea Martella del Pd, hanno presentato interrogazioni al ministro della Salute. Chiedono, tra l’altro, sulla base dei pareri di esperti ed infettivologi, se non sia il caso di sospendere l’attività di terapia intensiva neonatale, smantellare gli impianti presenti e trasferire il reparto presso un altro ospedale.
In Tribunale a Verona il 31 maggio è prevista un’udienza davanti al gip che dovrà decidere sull’opposizione che Francesca Frezza ha presentato alla richiesta di archiviazione della Procura per le accuse di omicidio colposo e lesioni colpose gravissime riguardanti la maggior parte dei casi avvenuti nel 2019-20. Una perizia, infatti, ha circoscritto l’arco temporale delle eventuali responsabilità del personale sanitario e della direzione dell’ospedale. “Mia figlia è stata colpita dal Citrobacter – commenta Francesca Frezza – ma nessuno dovrebbe pagare per la sua morte avvenuta alcuni mesi dopo?”.
Immagine d’archivio