Il fatto economico realmente rilevante delle ultime settimane è rappresentato dalla decisione di Stellantis di diventare la casa distributrice delle auto elettriche prodotte dalla cinese Leapmotor. Un noto giornale economico si è chiesto se in questo modo la casa automobilistica europea farà da cavallo di Troia per l’arrivo dell’auto elettrica cinese in Europa.
È noto come Stellantis sia abbastanza indietro in questo campo. Con questa mossa il super (pagato) manager portoghese Tavares, amministratore delegato di Stellantis, spera forse di recuperare il ritardo accumulato rispetto ai competitor europei. Per ora si tratta della distribuzione, ma l’accordo prevede anche la produzione congiunta.
Naturalmente, ha rivelato il super manager intervistato, la decisione finale di dove produrre le nuove auto elettriche, essenzialmente se in Polonia o in Italia, dipenderà dalle condizioni economiche. Qui non sembra esserci però incertezza visto che il costo orario del lavoro è di circa 30 euro in Italia e 10 euro in Polonia. Le auto della casa cinese hanno un prezzo attorno ai 10.000 dollari in Cina. Se Stellantis pensa a una utilitaria elettrica a basso costo, la Polonia diventa il soggetto produttivo privilegiato. I siti produttivi italiani, già in cassa integrazione, possono attendere con grande preoccupazione dei sindacati, ma soprattutto dei lavoratori.
Detto questo, per capire le implicazioni di questa improvvisa e inaspettata svolta cinese di Tavares, stando anche alle sue recenti dichiarazioni che andavano in senso opposto e protezionistico, dobbiamo guardare al mercato dell’auto elettrica in Cina. I dati ci dicono che il 60% di tutte le auto elettriche vendute al mondo sono state assorbite dal mercato cinese. Inoltre, nel gigante asiatico circolano la metà di tutte le auto elettriche al mondo. Era inevitabile che la super produzione cinese cercasse una sponda anche in Europa.
Le imprese cinesi entreranno dalla porta di servizio con l’accordo di Stellantis. Le auto elettriche made in China a costo contenuto conquisteranno subito un’importante fetta di mercato, si stima attorno al 10%, a causa dei prezzi ultra competitivi che dipendono da tre fattori: il basso costo del lavoro, i generosi finanziamenti delle banche statali e le agevolazioni concesse dalle municipalità per gli insediamenti industriali. Queste tre condizioni rendono le auto cinesi imbattibili in termini di prezzo. Con la Cina l’auto elettrica sarà alla portata di tutte le tasche. Ma qui sorgono i problemi.
Accadrà nel settore automobilistico quello che è successo nel settore fotovoltaico? Fino agli anni Novanta l’industria europea dei pannelli solari occupava una posizione di rilievo, sia dal punto di vista tecnologico che economico. Poi è arrivato lo shock cinese. In un decennio le imprese cinesi hanno demolito il fotovoltaico internazionale – ed europeo in particolare. Oggi tutti gli elementi fondamentali per la costruzione dei pannelli solari sono prodotti in Cina. Il gigante asiatico ha l’assoluto monopolio e tutti gli altri paesi sono assemblatori o semplicemente distributori.
Il paradosso è che molti Stati, compreso il nostro, offrono generosi sussidi per l’installazione dei pannelli solari, ma in questo modo stiamo sostanzialmente sussidiando le imprese cinesi, che comunque hanno un problema di super produzione. Se dovesse ripetersi questo scenario anche per l’industria automobilistica, le conseguenze sarebbero ben peggiori.
Di questo rischio si è ben accorta l’amministrazione Biden che ha abbracciato una politica protezionistica, esattamente come Trump, e anzi l’ha rafforzata. Biden ha annunciato proprio recentemente che quadruplicherà i dazi sulle auto cinesi dal 25% al 100% e oltre. Lo stesso vale per le celle dei pannelli solari, i cui dazi aumenteranno dal 25% al 50%. Questa politica protezionistica vede il consenso di entrambi i partiti, anche perché il deficit commerciale statunitense è enorme.
Quindi gli Usa hanno scelto la strada dell’abbandono delle regole del libero commercio per tutelare i loro interessi nazionali, anche militari. È iniziata, o meglio si è intensificata, una guerra commerciale tra le due maggiori economie del modo dall’esito incerto.
L’Europa pare abbastanza assente in questo contesto delle politiche industriali, spettatore come al solito passivo. E l’Italia? Il ministro Urso ha innescato recentemente una buffa polemica sul nome di un’auto Stellantis che non poteva chiamarsi Milano perché prodotta in Polonia. Per il resto nulla, e si pensa ancora di risolvere tutto con sconti fiscali sui nuovi assunti, mentre le imprese dell’auto vanno in cassa integrazione.
Il ministro sta assistendo passivamente allo spegnersi dell’industria automobilistica italiana, anche se oramai non più tale. Il paradosso è che la Fiat a suo tempo intervenne per salvare, con successo, Chrysler, la terza casa automobilistica americana nel tumulto della crisi del 2008. Ora accade il contrario.
Conglobata in Stellantis, la realtà automobilistica Italia fa da ponte al gigante cinese. Dopo aver perso il nome, l’Italia rischia di perdere anche la sua straordinaria vocazione produttiva. Non male per il governo più nazionalista, ma anche più inefficiente di sempre.
Il ministro diceva che l’Italia aveva bisogno di un partner cinese. È arrivato ma non è un buon segno, perché loro producono e noi, per ora, ci limitiamo a fare da agente commerciale – in attesa che l’avamposto si trasformi in una completa disfatta produttiva.
Per usare le parole di Tavares, l’arrivo delle auto cinesi potrà avere un effetto negativo sugli stabilimenti italiani; avrà invece un impatto sicuramente positivo sui conti della multinazionale e sul suo bonus milionario, sulla pelle degli interessi della piccola Italia e del suo piccolo governo.