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Il saggio di Lilli Gruber sul mondo dell’hard: non ne condivido l’approccio generico

Il recentissimo saggio di Lilli Gruber (Non farti fottere, Rizzoli, 2024) potrebbe intitolarsi, per parafrasare Mordecai Richler, “la versione di Gruber” sul mondo dell’hard. Un libro che denuncia, sin dal titolo, come l’autrice affronti il tema della pornografia.

Anche l’epigrafe iniziale rafforza il concetto di un documento a tesi, ovvero una apocalittica frase estrapolata da un racconto di Myths of the Near Future dello scrittore inglese J.G. Ballard: “Un diffuso apprezzamento per la pornografia è il modo che la natura usa per avvertirci che siamo a rischio di estinzione”. Ballard raccontava un mondo distopico, fatto di città disastrate, “modernità deformate e sesso feticizzato” che, ci auguriamo, restino almeno per ora sulle pagine dei suoi racconti.

Una tesi, quella di Gruber, distruttiva e preconfezionata che analizza alcuni aspetti del fenomeno, ma che finisce per risvegliare i lati più superficiali e colpevolizzanti in chi ne usufruisce, ovvero circa 300 milioni di utenti quotidiani che non credo siano tutti violenti maniaci sessuali e potenziali stupratori, finendo per avallare una strumentalizzazione portata avanti dai più intransigenti ideologi del “pensiero forte” come, ad esempio, i movimenti religiosi americani (“Nessuna esibizione del proprio corpo, nessuna pornografia o altre aberrazioni che possono contaminare la mente e lo spirito”, La Stella, agosto 1974, 337) o dell’integralismo islamico (che peraltro, sotto al tavolo ufficiale, consuma gran quantità di materiale pornografico).

Ciò premesso, al di là di questo malefico venticello indiretto, il saggio di Gruber, dal punto di vista puramente giornalistico, è assai interessante e ricco di dati che sono enumerati con grande attenzione. Da professionista qual è, Gruber analizza anche i recenti casi di cronaca violenta; la persistenza della nostra società matriarcale, causa prima di un concetto oggettificato della donna (per rendersene conto basta bere un caffè in un qualunque bar sport e ascoltare i discorsi di certi avventori “sulle femmine”…); le straordinarie movimentazioni economiche dell’industria dell’hard; e, soprattutto il ruolo del porno dopo l’avvento del digitale e i rischi oggettivi che i minori possono correre in rete senza la possibilità di una scelta matura rispetto a quanto quell’universo variegato propone loro (chi grida di oscurare i siti porno o di obbligare i minori a registrare un documento vive sulla Luna. Avendo una minima conoscenza della Rete, e non parliamo neppure di Dark Web o Deep Web, si sa che simili proposte sono destinate al fallimento, che sono solo spot elettorali. La soluzione? Maggiore cultura, in una scuola degna di questo nome).

Tutto ciò ha interessato molto anche me, che di aspetti sociali e storici della pornografia mi occupo e scrivo da più di trent’anni. Gruber cita anche film hardcore rappresentativi e ormai storici (per esempio Gola profonda, scarso filmetto pseudo-comico la cui importanza risiede nell’essere stato il primo); disamina i finanziamenti mafiosi dei primi porno; auspica una seria politica di educazione sessuale nelle scuole (ne sento parlare da quando sono ragazzo…), sempre osteggiata (soprattutto) dalle destre (e spesso, ahimè, anche dalle mamme meno mentalmente aperte di molti bambini e adolescenti, le stesse che rifiutano maestre e professoresse trans pur se dotate di doppie lauree). Riguardo a tutto questo sono in pieno accordo con Gruber.

Non condivido affatto, invece, l’approccio generico e globalizzante al porno da parte della giornalista. Per raccontare analiticamente la pornografia, bisognerebbe utilizzare un metodo più storicistico e culturale, si dovrebbe poter studiare l’esegesi del porno e come esso abbia influito nel sociale, evolvendo i costumi della società visto che esiste, sia pur riservato a cerchie ristrette e benestanti, sin dai tempi dei fratelli Lumière. Anche se il libro manca colpevolmente di una bibliografia, sia pur essenziale, se vogliamo limitarci all’Italia, esistono, fra i vari, testi fondamentali come Il porno di massa di Pietro Adamo (Raffaello Cortina, Editore, 2004), docente di Storia delle Dottrine Politica all’Università di Torino. La pornografia è, infatti, qualcosa di assai complesso da affrontare scatenando spesso una sorta di “panico culturale” come lo definisce la psicoterapeuta psicosessuale britannica Silva Neves.

Anche eminenti studiosi americani come Edward Donnerstein, psicologo della Florida University o Neil Malamuth, membro dell’American Psychological Association, pur ammettendo che una prolungata esposizione al porno possa abbassare negli uomini i livelli di inibizione, non hanno mai affermato che esista scientificamente una relazione causa-effetto fra porno e propensione allo stupro. Il fenomeno degli stupri nasce invece da un distorto concetto di mascolinità che porta all’assoggettamento della donna e da profondi deficit e retaggi culturali. Il solo, fra i vari intervistati da Gruber (fra i quali il pentito Siffredi) a rispondere sensatamente è San Roberto D’Agostino, come lo definisce Claudia Ska recensendo il libro su Rolling Stone. Afferma D’Agostino: “La vera perversione è la routine, l’abbrutimento nel lavoro quotidiano” e cita il poeta della Beat Generation John Giorno: “Nessun cazzo è più duro della vita”.