Tra i vizi di forma che si possono notare a proposito dell’estenuante battibecco politico sulla cultura, che si è aperto dopo l’avvento al potere di Fratelli d’Italia e che si alimenta quasi ogni giorno, il più rivelatore è quello economicista. Esemplare, da questo punta di vista, è l’interminabile polemica sul sovrintendente del teatro alla Scala: nell’ultimo valzer di picca e ripicca a mezzo agenzie di stampa, il vecchio Dominique Meyer (classe 1955) ha accusato il ministro di averlo cacciato nonostante gli straordinari risultati economici della sua direzione, e il prode Gennaro Sangiuliano ha ripetuto che non ci sono nomine a vita, soprattutto chi ha ormai raggiunto i limiti d’età (nel caso, la legge parla di 70), aggiungendo sospettoso: ‘mi giunge notizia che si stia parlando di un’extra-liquidazione per Meyer…

Singolare che tra i vanti della sua direzione – tutti in denaro, perché di grandi eventi culturali se ne sono visti pochi e di scelte dubbie più d’una – Meyer si sia dichiarato anche orgoglioso di aver abolito i prezzi scontati dei biglietti last-minute, così da far pagare in media 200 euro ogni biglietto. Già, meglio lasciare le poltrone vuote che svenderle, facendo magari arrabbiare quei ‘poveretti’ che hanno pagato il prezzo intero, o hanno risparmiato qualcosa con l’abbonamento, davvero ‘alla portata di tutti’, per 14 opere a quasi 3mila euro. Di sicuro in platea si possono sedere più sereni gli evasori e gli elusori fiscali, dato che lo Stato munge più di 32 milioni di euro alle tasche dei cittadini per girarle al popolare teatro lirico milanese, e ancor più ‘soldi nostri’ arrivano pure dal Comune, dalla Regione, dalla Camera di Commercio, dalla Banca Intesa…

Anche nel lungo tira-e-molla sul rinnovo della direzione di Claudio Longhi al Piccolo Teatro, avversata dalle forze politiche di destra, si è arrivati alla vera e propria resa dei conti, nel senso che i vari rappresentanti dei poteri in causa discutono adesso sui risultati economici e di gestione.

Tanto per non parlare solo della ‘povera’ scena pubblica di Milano, il teatro di Roma ha appena presentato il primo programma del nuovo direttore Luca De Fusco, indicato dal centrodestra e subito finito al centro di un contenzioso politico, risoltosi poi con una lottizzazione allargata al Pd e ancora non conclusa. Anche per i teatri pubblici capitolini si è parlato di numeri, ma perlopiù legati alle rappresentazioni.
La vera curiosità – al di là del ritorno in scena di Luca Barbareschi, in un programma del Teatro Argentina che più polveroso di così si soffoca – è stato l’uno-due di De Luca ai giornalisti che lo hanno incalzato. Sul tema della parità di genere, De Luca ha risposto: trovo ‘aberrante’ l’idea di valutare una proposta in base al fatto se la regia è di un uomo o di una donna (che saranno poi solo 5, su 48 regie). E sulle denunce di abusi e le inchieste giudiziarie, il direttore si è limitato a dire: sono ‘garantista’.

Infine, sul problema dell’eccesso di precari sottopagati che tengono in piedi i ‘suoi teatri’ e puntualmente protestano da mesi, De Luca ha replicato pensando di fare lo spiritoso: ‘Anch’io sono precario da tutta una vita…’. Al che una lavoratrice in sala ha dato il via alla contestazione con cui si è chiusa la conferenza stampa: ‘Sì, peccato che lei sia precario da 150mila euro di stipendio come direttore, più le regie che si paga nello stesso teatro che dirige: non siamo per niente uguali!’.

Già, a differenza del teatro d’opera (dove il conflitto d’interessi si appalesa con la firma magari giusto per certi direttori d’orchestra, che si regalano nuove edizioni e arrangiamenti ad hoc), nei cartelloni dei teatri pubblici di prosa quasi tutti i direttori si appaltano regie di prim’ordine e puntualmente poi si scambiano favori tra di loro con ospitalità e tournée. Nel primo programma di De Fusco, per esempio, c’è un suo ‘Guerra e pace’ nonché vari spettacoli dei direttori-registi di Bologna, Milano, Torino e così via, i quali ‘precari’ colleghi troveranno poi lo spazio in cartellone per far andare ancora in scena questo suo nuovo adattamento tolstoiano. Un circolo vizioso, peraltro, incoraggiato addirittura da norme ad hoc varate nella lunga stagione di Enrico Franceschini al dicastero oggi travolto dal ciclone Sangiuliano.

Altro che egemonia culturale della sinistra, e controffensiva della destra. Meyer o De Fusco pari sono: il problema è che la ‘cultura pubblica’ così com’è diventata – non solo nei teatri, certo – ha perso qualunque ragion d’essere, asservita totalmente al pensiero unico dominante dell’economicismo e stritolata da logiche di lobby, tanto quanto il sistema turbo-capitalista di riferimento. ‘La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura…’ , hanno scritto i Costituenti all’articolo 9, non pensando certo che all’accrescimento di chi può sborsare 200 euro per vedere un’opera o dei conti in banca di sovrintendenti e direttori.

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