Allix è stato per molti anni un reporter di guerra nei luoghi più “caldi” del pianeta
“Quindici anni di indagine mi hanno costretto a dover ammettere che la vita dopo la morte è una realtà, un’ipotesi scientifica, razionale. Basata su fatti. Cosa accade realmente in quel momento? Cosa ci aspetta dopo? Dove si trovano i nostri cari defunti? A queste domande così urgenti è possibile rispondere. Chiediamo prove, sono davanti ai nostri occhi: la morte non è la fine della vita”. Stéphane Allix è stato per molti anni un reporter di guerra nei luoghi più “caldi” del pianeta. Ha viaggiato in tutto il mondo, ha compiuto rilevanti reportage per documentare il traffico internazionale di droga, ha collaborato con le principali testate e i più importanti canali televisivi, ha aperto a Kabul la sede della “Société des explorateurs francais”, con l’obiettivo di fare l’inventario dei siti archeologici afgani, un progetto abbandonato dopo la sconvolgente distruzione dei Buddha di Bamiyan da parte dei talebani. Poi quando suo fratello più giovane, Thomas, che collaborava con lui, è morto in Afghanistan in un tragico incidente, ha deciso di applicare le regole del giornalismo d’inchiesta a uno dei temi più rimossi dei nostri tempi: la morte, appunto. E soprattutto, di indagare l’ipotesi di una vita oltre la vita.
“Faccio il giornalista da oltre trent’anni e il mio metodo di lavoro, che consiste nell’ascoltare, incrociare i fatti, individuare le costanti e sottoporle a un esame critico, non è cambiato. Se questo metodo viene applicato con serietà e discernimento, non esiste argomento tabù. Compreso quello della vita dopo la morte”. Il risultato dei suoi lunghi anni d’indagine sul tema è tutto in libro che è diventato un caso internazionale, “DOPO… La straordinaria inchiesta di un reporter sulle prove della vita oltre la vita”, che esce ora in Italia per Libreria Pienogiorno dopo aver dominato le classifiche francesi. Allix usa un approccio scientifico, “cartesiano” dice lui, si rivolge alla medicina, alla psichiatria, alla fisica quantistica, alla biologia, e anche a strumenti meno ortodossi, come i medium e alcune pratiche tradizionali, raccogliendo centinaia di testimonianze e di interviste con esperti dei vari ambiti. “Quando si parla di vita dopo la morte, qualunque mente curiosa viene rapidamente sopraffatta da una profusione di scritti e testimonianze di ogni tipo, dagli insegnamenti ispirati delle diverse tradizioni religiose alle conoscenze trasmesse da figure con i percorsi più disparati fra le quali, bisogna ammetterlo, si trova di tutto: autentici maestri, ma anche illusi inconsapevoli e molto sicuri di sé; persone illuminate come pure gente bislacca più o meno bene intenzionata; saggi e bugiardi; scienziati seri e dilettanti; santi e profittatori. È possibile fare ordine in questo caos di informazioni? È la missione in cui sono impegnato da anni. Mantengo un punto di vista razionale, il che significa che chiunque intraprendesse ricerche simili arriverebbe alla stessa conclusione.”
E la conclusione, sostiene, non può che essere, ragionevolmente, una: “La morte non è la fine della vita, ma un momento di transizione fra due realtà distinte. La morte è una porta”. Sono moltissime del resto, sottolinea Stéphane Allix, le testimonianze di uomini e donne che sperimentano diverse forme di comunicazione spontanea dopo il decesso di una persona cara. Esperienze che si danno senza che i testimoni le abbiano volute o cercate, e che anzi vengono comunicate con un certo imbarazzo.
“Scientificamente vengono definiti vissuti soggettivi di contatto con un defunto (vscd). Le ricerche mostrano che il ventiquattro per cento dei miei connazionali ha vissuto uno o più vcsd durante il periodo del lutto. E per gli Stati Uniti alcuni ricercatori hanno stimato una percentuale che oscilla fra il venti e il quarantacinque per cento. Si tratta di numeri significativi. Per la loro frequenza, i vcsd costituiscono un fenomeno sociale importante, che passa totalmente inosservato. Come considerare queste testimonianze? Si tratta di esperienze soggettive? Certamente, ma il fatto che qualcosa sia ‘soggettivo’ non significa assolutamente che non accada. La soggettività non è sinonimo di illusione, delirio o confusione. Gli psichiatri che ho intervistato, al contrario, paiono escludere che si tratti di allucinazioni di qualche tipo, né di una sorta di meccanismo di compensazione emotiva legato all’elaborazione del lutto. Generalmente, anzi, queste esperienze, molto diverse tra loro, si verificano in maniera inaspettata e improvvisa, cogliendo di sorpresa le stesse persone cui accadono, e non si manifestano invece negli individui che vorrebbero avere dei segni. Ma questo è solo un esempio delle molte analisi che ho compiuto nel corso di questo lavoro”.
Che cosa ci dicono queste e altre rilevanze? “Che la morte in qualche modo non è altro che un velo illusorio – una constatazione, questa, che va al di là delle credenze e delle religioni. La morte non ci conduce in un nulla di silenzio, perché da essa si alzano milioni di mormorii. Non ci condanna, perché è uno spazio di continua evoluzione, e tale transizione è caratterizzata da una continuità. Le nostre emozioni, i nostri difetti e le nostre qualità ci accompagnano e segnano il proseguimento della nostra esistenza”.
Un confine estremo per un’inchiesta giornalistica. “Io ho sempre amato i confini” conclude Allix. “E soprattutto oltrepassarli. La prima volta che farlo si è rivelato decisivo avevo poco più di vent’anni: sgattaiolai furtivo dal bazar di una zona tribale del Pakistan e iniziai la salita di un passo che mi avrebbe portato nell’Afghanistan in guerra. Avevo la gola secca, il sangue che mi martellava nelle tempie e avanzavo sudato in mezzo a un caos infernale. Guerriglieri, armi, tutto passava per quel sentiero, diretto alle cellule clandestine dei resistenti afghani. Ma un passo dopo l’altro arrivai in cima al valico e il paesaggio si rivelò in tutta la sua magnificenza: un orizzonte di montagne innevate, l’immensità selvaggia di una terra straniera. Percorrevo con gli occhi questa distesa dove nulla segnava la frontiera fra i due Paesi, che tuttavia passava proprio lì, da qualche parte fra le montagne, invisibile. Nella vita è spesso così: non si vedono i confini perché si pensa di vivere in un mondo solo. Si capisce di averli attraversati solo dopo averlo fatto. Il confine che queste esperienze e conoscenze ci invitano a varcare è quello di un certo numero di pregiudizi pseudoscientifici, che sono oggi rimessi seriamente in discussione. Aggrapparvisi non è segno di un atteggiamento scientifico, ma di un dogmatismo irrazionale. La morte non è un paese straniero. Siamo tutti insieme. Noi con loro e loro con noi. La mia ragione l’ha constatato, e ormai anche il mio cuore ha accettato che è così”.