di Claudia De Martino

Il conflitto a Gaza sta entrando nel suo nono mese senza accennare ad avviarsi alla fine, ma anzi con una recente ripresa delle attività militari, testimoniata dai bombardamenti israeliani degli ultimi giorni con tante vittime, soprattutto civili. La particolarità è che ora non si combatte solo a Rafah, dove l’esercito israeliano ha dichiarato di voler condurre l’ultima offensiva per estirpare i quattro battaglioni residui di Hamas ancora presenti nella Striscia, ma a Gaza city e al campo profughi di Jabaliya al nord, da cui gli israeliani si erano ritirati ad aprile, ritenendo i loro obiettivi militari raggiunti.

In più, è notizia recente che sono tornati a piovere razzi sparati dalla Striscia sulla città di Tel Aviv, in piena offensiva a Gaza in corso: un dato che conferma come i miliziani superstiti di Hamas si muovano ancora all’interno della Striscia con una certa capacità offensiva, a nove mesi dall’inizio di una guerra che è riuscita a distruggere tutto intorno a sé tranne il primo obiettivo che nominalmente si prefiggeva (Hamas) e senza contribuire minimamente al secondo che, altrettanto nominalmente, intendeva perseguire (la liberazione degli ostaggi). Come qualche cinico ha notato, tra poco il governo Netanyahu sarà riuscito nel suo duplice vero intento: quello di rendere Gaza inabitabile per i prossimi dieci anni e di riportare a casa tutti gli ostaggi, morti, a maggioranza sotto le bombe dell’Idf.

Un terzo obiettivo sottaciuto del Premier, emerso dalle recenti dichiarazioni dell’Idf sul possibile protrarsi della guerra per altri sette mesi, farebbe coincidere la fine delle operazioni a Gaza con l’eventuale insediamento di Trump alla Casa Bianca, da cui Netanyahu spera di ricevere l’appoggio necessario a restare al potere e il via libera ad aprire le ostilità con l’Iran, magari con il supporto americano.

Gli israeliani amano tanto l’espressione “ein brera” (“non c’è scelta”), che sembra condensare una necessità assoluta di fare qualcosa, un modo univoco di reagire difronte ad una sciagura o ad una situazione critica non voluta. Tuttavia, si dà raramente il caso che sia così in politica, che non vi sia un’alternativa, un’altra strada da percorrere. Occorre solo saperla leggere, tornare a scommettere sul fatto che il futuro possa essere diverso da una reiterazione continua del passato. Gli israeliani non hanno ancora compreso, o forse accettato, che 17 anni di assedio hanno prodotto il dramma di Gaza, di una popolazione palestinese segregata che li disprezza e che, senza amare Hamas, ha trovato nel movimento di resistenza islamica l’unica risposta all’abbandono in cui versava la loro vita collettiva.

E che bombardandoli oggi tutti i giorni, tagliando loro l’acqua, i viveri, l’elettricità, riducendoli a zombie costretti ad ammassarsi in campi profughi di fortuna dove mille persone condividono un solo bagno data la densità umana, massacrando indiscriminatamente civili, donne e bambini, demolendo i pochi ospedali residui dove dovrebbero trovare soccorso i feriti, la prossima generazione li odierà ancora più fermamente dei loro padri e il terrorismo esploderà, diventando un fenomeno di massa tra i palestinesi, acquisendo una popolarità che aveva perso negli ultimi trent’anni. E non possono raccontarsi che tutto questo fosse inevitabile, che non vi fossero alternative.

Trent’anni fa, l’irrazionalità ha iniziato a diffondersi in Israele con la salita al potere delle destre sioniste revisioniste e dei partiti religiosi, che vedevano nella colonizzazione una panacea per tutti i mali sociali ed economici: ad oggi, non si sa ancora, e non lo sanno nemmeno gli israeliani colti che si informano quotidianamente attraverso i media locali, quanto la colonizzazione costi effettivamente al governo ogni anno, dato che i suoi bilanci non sono pubblici. Tali forze estremiste israeliane hanno trovato in Hamas un perfetto interlocutore: interpretando ognuno il rispettivo gioco delle parti, la presenza di Hamas ha dato ad Israele la possibilità di evitare qualsiasi negoziato con i palestinesi, perché quest’ultimi erano anche (ma non solo) rappresentati da un movimento che negava l’esistenza d’Israele e avallava gli attentati suicidi, votato al terrorismo e alla lotta armata.

Come due forze allo specchio, Hamas e la destra israeliana si sono sempre rinsaldati l’un l’altro: poiché esisteva Hamas, l’enfasi da parte israeliana era sempre sulla sicurezza e finché esisteva la destra di Netanyahu, Hamas poteva continuare ad esistere come un movimento di resistenza, alleato all’Iran, senza avere bisogno di scendere a compromessi politici e di concentrarsi sul governo civile della Striscia.

Rosicchiando ogni giorno un pezzo del territorio che sarebbe dovuto appartenere all’altro popolo con cui condividevano quella terra, tutt’altro che santa, gli israeliani hanno reso con le loro stesse azioni impossibile la “soluzione a due Stati” e la separazione tra i due popoli, che pure, nominalmente, auspicavano. Consapevoli dell’impunità generale in cui agivano, con una comunità internazionale occidentale compiacente, hanno proseguito nel loro disegno di creare nuovi villaggi in Cisgiordania, stringendo in una morsa quelli palestinesi, con l’obiettivo di dividerli gli uni dagli altri e disinnescare la terribile minaccia demografica chiudendo Gaza dietro ad un alto muro elettrizzato.

Dopo il 7 ottobre, quando si sono accorti che quel muro non era affatto inespugnabile, hanno deciso di reagire radendo al suolo il luogo dove 2.2 milioni di palestinesi vivono, con la segreta speranza che almeno una parte di loro emigrasse, ritardando di qualche anno lo spettro della parità demografica tra arabi ed ebrei tra il Giordano e il Mar Mediterraneo. Ora che anche quel sogno è tramontato, si ritrovano con il problema di dover gestire un territorio ad alta instabilità, dove ancora si trova nascosta sottoterra un’organizzazione criminale che non riescono a debellare (Hamas), senza sapere che fare, a guerra conclusa, dei gazioti che sopravviveranno alla guerra.

C’erano alternative a questo disastro umano, umanitario e strategico al contempo? Prima del 7 ottobre, tante, di cui alcune indicate dagli stessi politici israeliani (il piano Olmert, 2008), ma anche dopo il 7 ottobre ve ne erano molteplici: si poteva evitare di bombardare a tappeto la Striscia ed entrare con un’operazione di terra mirata, oppure uccidere i capi di Hamas tramite operazioni militari a distanza con l’obiettivo di decapitare politicamente l’organizzazione e delegittimarla nel mondo arabo, fino a destituirla dal potere tramite un’azione diplomatica, compattando un ampio fronte filoisraeliano.

Invece si è scelto di reagire con la sola forza, di mirare ad ogni bersaglio che si muovesse, di lasciare dietro di sé solo macerie e trasformarsi in uno Stato paria tra le democrazie, accusato di genocidio, il cui Primo ministro e Ministro della Difesa sono entrambi imputati all’Aja (anche se il mandato di cattura della Corte Penale Internazionale è ancora da validare).

Comunque termini questa terribile guerra, dobbiamo solo sperare tre cose (o meglio, lavorare in vista di tre obiettivi): che né il Governo Netanyahu né Hamas siano più in carica nel dopoguerra; che l’Unione Europea decida di stare dalla parte del diritto internazionale, anche quando sul banco degli imputati ci sono i nostri alleati o noi, e non solo capi di stato africani implicati in genocidi lontani e rimossi, e che Israele e la Palestina sappiano esprimere due leadership diverse, idealmente rappresentate da un Marwan Barghouti, politico che ha sempre militato per l’unità nazionale, e un Yair Golan, recentemente eletto leader del Partito laburista, che nel 2016 ad una cerimonia commemorativa dell’Olocausto ebbe il coraggio di dire: “Quello che mi spaventa del ricordo della Shoah è rivedere alcuni processi in atto nella Germania degli anni ’30 ripetersi oggi in Israele”.

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