Cronaca

Riparare i danni del Covid: un progetto per restaurare il rapporto di fiducia tra medici e parenti delle vittime

“Non si è detto mille volte che il Covid ha fatto più morti di una guerra? E allora per curare le ferite personali e sociali della pandemia Covid ci vuole davvero una ‘giustizia di guerra’”. Così scriveva nel gennaio del ’23 sul Corriere della Sera Luigi Ferrarella. Il punto di partenza del suo ragionamento – ma anche di quello di altri, come Paolo Giordano – era che il Covid ha costituito una grande frattura sociale i cui effetti si sentono anche adesso. È questo lo spunto da cui è partito un progetto sperimentale, fatto con Simeu, l’Unversità Cattolica di Brescia, all’interno del Master in Giustizia Riparativa e l’Istituto di mediazione familiare e sociale di Brescia, che è stato presentato all’interno del congresso di Simeu, a Genova. Reso possibile grazie all’incontro con l’attuale presidente, Fabio De Iaco, avvenuto (solo virtualmente) nel lontano aprile 2020, quando il Fatto lo intervistò sulle “parole per dirlo”, il modo per comunicare la morte di un malato Covid a un familiare.

Il punto di partenza era l’idea di fare un’azione sulla comunità, nel tentativo di “riparare” il rapporto tra la medicina e la popolazione. La giustizia riparativa “è la giustizia dell’incontro, un modello di giustizia relazionale che si prende cura della frattura generata dalla commissione di un fatto di reato. Nella giustizia riparativa, attraverso l’accompagnamento di mediatori esperti, vittime e persone indicate come autori dell’offesa possono partecipare attivamente, in modo volontario e riservato, alla gestione degli effetti negativi derivanti dal reato, attraverso programmi dialogici che facilitano il riconoscimento reciproco e la progettazione di azioni di riparazione volte al futuro”. È una giustizia che corre parallelamente a quella retributiva, all’educazione e alla rieducazione, che ha altri strumenti e altri obiettivi.

I medici sono comunque finiti sul banco degli imputati, dopo il Covid. A volte davvero, altre volte semplicemente nell’immaginario collettivo. Con il paradosso di essere partiti dagli applausi sui balconi nella prima fase del lockdown per arrivare alle aggressioni no vax e alle grandi inchieste (come quella di Bergamo), ma anche a tante denunce singole. Dunque, l’idea in fieri è stata quella di considerare tutti gli attori di questo progetto a diverso titolo “vittime”.

Ci sono strumenti di giustizia riparativa che utilizzano un dialogo circolare: i partecipanti sono seduti in cerchio e condividono fatti, vissuti, emozioni. Nel dettaglio, il progetto si è rifatto ai Panel, contaminati con i “Community Circles”, o il “Conferencing”. Sullo sfondo, le esperienze dei cosiddetti “Gruppi di parola”, interventi in genere dedicati a minori, che vivono lo stesso tipo di esperienza. Ai Panel – secondo la definizione dello strumento – possono essere invitati a partecipare autori di reati analoghi a quelli di cui si narrano le conseguenze, ma non coloro dai quali le vittime hanno subito direttamente il fatto criminologico. I Community Circles prevedono una partecipazione più ampia (oltre a vittime e autori dell’offesa, anche i loro familiari e i componenti delle comunità) e uno scambio “paritario” e “circolare” tra tutti i partecipanti.

Si è partiti dalla costituzione di un’equipe (Giancarlo Tamanza, Ilaria Marchetti, rispettivamente direttore e coordinatrice del Master, Adriana Vignoni, Mariagrazia Modesti, Luca Pallini). Sono state individuate delle persone interessate, soprattutto al Nord, allargando i colloqui a infermieri e medici di base. Dopo una serie di contatti ad ampio raggio, sono stati fatti 10 colloqui a parenti di vittime, 2 a infermieri, 8 a medici, tra urgentisti, rianimatori, medici di base. Poi, ci sono stati gli incontri. Hanno partecipato ai Gruppi singoli (uno per gli operatori sanitari, l’altro per i parenti delle vittime) 8 operatori sanitari (tra cui un infermiere) e 7 parenti. Al gruppo finale 5 operatori sanitari e 6 parenti, oltre ai mediatori.

I colloqui individuali hanno cercato di riportare l’attenzione sui giorni del Covid: non tanto le azioni, ma i sentimenti, le emozioni, le paure, le scelte, i rimorsi. Sono state raccolte le lacrime non solo dei parenti delle vittime, ma anche dei medici. E proprio dei medici, la pressione, ma anche l’entusiasmo, la fatica, la passione, e poi la rabbia, il rimorso, il burn out. E faticosamente la decisione di andare avanti, magari in modo diverso, ma cercando la maniera di continuare a fare un mestiere complicato.

C’erano dei temi ricorrenti. Tornavano nelle parole dei parenti, frasi come: “Non l’abbiamo più visto”; “se avessi insistito di più, se avessi fatto di più”; “mi hanno detto ‘è morto’ senza avvisaglie, senza aggiornarmi”; “sono stati abbandonati a se stessi”; “se n’è andato da solo”; “non sono stati in grado di dirmi a che ora è morto”; “son morti tutti soli” ;“ci siamo ritrovati le sue cose buttate lì, in una sacca blu”. E poi la recriminazione contro la politica, il Servizio sanitario nazionale, l’informazione sballata, i protocolli, le rigidità. Ma anche tra i medici alcuni temi e alcune affermazioni erano ricorrenti: “senso di colpa nei confronti della mia famiglia”; “adrenalina”; “problemi a trovare una comunicazione giusta”; “mi pesavano le telefonate”; “sono morti da soli”; “non potevamo far entrare i parenti”. Con una differenza, nel racconto, tra la prima e la seconda ondata. Perché nella prima c’era anche tanto entusiasmo, unito a tratti con una sensazione di onnipotenza, e la consapevolezza di fare davvero i medici. Mentre la seconda ondata è stata caratterizzata da molta delusione. Tra i temi che tornano: l’abbandono da parte delle istituzioni, i no vax, il burn out, la rabbia, a tratti anche nei confronti dei pazienti. Anche per i medici, la sfiducia verso le istituzioni, la politica, l’informazione.

I parenti delle vittime cercavano risposte, non solo mediche, ma anche emotive, psicologiche, volevano capire com’erano andate le cose dall’altra parte, volevano poter raccontare un po’ della loro rabbia e del loro dolore a persone non considerate colpevoli, ma di certo inserite in un meccanismo, in un sistema a qualche livello vissuto come ostile, percepito poco empatico, poco comprensivo. Gli operatori erano interessati a confrontarsi con i parenti, a capire come avevano elaborato il lutto, a mettersi a disposizione. Sono entrate in circolo emozioni diverse, ma in fondo analoghe. A partire dal senso di colpa, dal rimpianto, dal rimorso. Secondo una nota dominante. Per i medici: “Sono morti da soli”. Per i parenti: “Aver mancato il saluto finale”. Nel dialogo circolare a distanza sono arrivate delle risposte. Rispetto al “Sono morti da soli”, a un certo punto si è inserito un racconto, tra le lacrime, di una giovane dottoressa: “I malati sono morti da soli, ma sono morti tutti con noi. In quel momento, le persone con cui vivevo erano i miei malati che erano soli e avevano solo noi. Il peso della perdita di persone che hanno avuto la percezione di morire senza parenti ce l’avevamo. Sapevamo tutte le loro storie, certo non erano nostri parenti, ma persone che conoscevamo benissimo”.