Musica

I 200 anni della “sinfonia della gioia”: innovazione e popolarità, i segreti del monumento della Nona di Beethoven

Vienna, Teatro di Porta Carinzia, 7 maggio 1824: Ludwig van Beethoven, cinquantaquattrenne, dirige la sua Nona Sinfonia. L’impianto dei quattro movimenti è grandioso: nel quarto, un coro intona alcuni versi dell’ode di Friedrich Schiller An die Freude (Alla gioia). Successo enorme, applausi frenetici, ma Beethoven, sordo, non ode nulla. Il soprano Caroline Unger lo spinge a voltarsi perché veda il pubblico in delirio. Da allora l’influsso della Nona sulla storia della musica è stato massiccio. A Milano il bicentenario è stato festeggiato con un’esecuzione di rango trasmessa da RaiUno, direttore Riccardo Chailly. Ilfattoquotidiano.it ha parlato della sinfonia tra le più celebri con Fabrizio Della Seta, un musicologo che non arretra di fronte ai colossi: Beethoven, Verdi, Bellini. Professore emerito all’Università di Pavia, uno stuolo di allievi, libri tradotti in inglese e in giapponese, è autore di una guida alla Terza Sinfonia, l’Eroica, e per Ricordi codirige l’edizione delle opere di Bellini.

Professor Della Seta, il 7 maggio scorso La Scala ha ricordato i 200 anni della Nona.
Lo ha fatto anche Riccardo Muti a Vienna. La Nona, come la Cappella Sistina o il Faust, è un’opera chiave della cultura occidentale. C’è però il rischio che invece di ascoltare la sinfonia di Beethoven se ne “ascolti il mito”.

Ossia?
Duecent’anni di ricezione l’hanno sovraccaricata di significati, a volte contraddittori. La si è letta come inno alla fratellanza universale ma anche come esaltazione della grande arte nazionale tedesca.

È stata anche strumento di propaganda, di violenza…
Sì, i nazisti la usarono alle Olimpiadi di Berlino, Furtwängler la diresse nel 1942 davanti a Hitler. Anche nella cultura popolare, Stanley Kubrick ne ha fatto un simbolo di violenza in Arancia meccanica… Viceversa, Bernstein con essa celebrò la caduta del muro di Berlino: sostituì nel coro la parola Freude, gioia, con Freiheit, libertà. La melodia dell’ultimo movimento, l’Inno alla gioia, è poi diventata l’inno ufficiale della Comunità Europea.

Quale fu l’iter della composizione?
Beethoven la compose tra il 1822 e il 1824, ma probabilmente aveva già annotato varie idee. Il tempo di gestazione non fu particolarmente lungo: la Missa solemnis, altra opera colossale degli stessi anni, gli richiese più tempo.

Perché la Nona è così mastodontica?
La tendenza alla monumentalità è caratteristica dell’ultimo Beethoven. La Nona dura 80 minuti, è la più lunga di tutte: soprattutto per via del finale, circa 20 minuti.

Qual è il suo senso intellettuale?
Il senso generale è indicato dai versi di Schiller nel quarto movimento, tratti dall’ode Alla gioia. La diceria che il titolo originario del poemetto fosse Alla libertà si è rivelata infondata. Non vi sono dubbi però che Schiller fosse sentito da Beethoven, e da molti tedeschi della sua generazione, come poeta della libertà.

Qual è il messaggio dell’Ode alla Gioia?
Promana dal verso più famoso, Alle Menschen werden Brüder, tutti gli uomini diventano fratelli. Questa era però la versione autocensurata di un verso rivoluzionario: Bettler werden Fürstenbrüder, i mendicanti diventano fratelli dei principi. Forse Beethoven lo sapeva… (sorride)

La Nona è un punto d’arrivo che guarda al futuro? O è il sunto di esperienze passate?
Nell’ultimo decennio il linguaggio beethoveniano divenne sempre più radicale e innovativo, allontanandosi dalla tradizione. Ma la Nona costituisce un’eccezione: nonostante la novità del finale e l’arditezza di alcuni procedimenti, l’impianto formale generale rispetta la tradizione sinfonica di Haydn e Mozart.

Perché questa discrasia?
Dipende probabilmente dalla natura stessa del genere sinfonico: se nella musica da camera, come i quartetti, Beethoven puntava a una sorta di esoterismo per pochi intenditori, nella sinfonia usava un linguaggio avanzato, ma non rinunciava al carattere popolare, alla comunicazione col grande pubblico.

La Nona influenzò la produzione sinfonica successiva.
Certo. Senza di essa sarebbero impensabili le sinfonie con voci di Mendelssohn e di Mahler, ma anche la Prima di Brahms e l’intero ciclo delle sinfonie di Bruckner.

Le nove Sinfonie si presentano come un corpus coerente, diversamente da quelle di Haydn e Mozart.
Le sinfonie ottennero subito, man mano che apparivano, una grande rinomanza internazionale: verso il 1820 nessuno dubitava che Beethoven fosse il più grande musicista vivente, almeno per la musica strumentale.

Le Sinfonie sono diventate un canone della musica.
Sì, sono state loro a far nascere il canone sinfonico tuttora dominante, arricchito poi da Mendelssohn, Schumann, Brahms eccetera. Retrospettivamente sono state inglobate nel canone le maggiori creazioni sinfoniche di Haydn e Mozart.

A partire da quando?
Il punto di svolta è segnato dalle esecuzioni a Parigi, dal 1807, nella Società dei concerti del Conservatoire. Una parte importantissima ebbe poi l’apostolato di Mendelssohn, Schumann, Liszt (che le trascrisse tutte per pianoforte) e Wagner.

Che immagine di Beethoven ci restituisce la Nona?
La figura del compositore è spesso appiattita su un’unica dimensione: l’eroe doloroso che lotta in solitudine per affermare il suo ideale contro tutte le avversità. Pensi al “destino che batte alla porta” nella Quinta. Così è anche il Beethoven della Nona, della Terza, e di sonate come la Patetica e l’Appassionata.

E le altre sinfonie?
Beethoven è poliedrico, sa esprimere atteggiamenti disparati: tenero nella Quarta, innamorato della natura nella Sesta, dionisiaco nella Settima, umoristico nell’Ottava. (sorride)

Anche le Sonate e i Quartetti sono diventati un modello obbligante.
È un repertorio straordinariamente ricco, vario. Dal punto di vista linguistico, è anche più avanzato di parecchie sinfonie, sebbene meno popolare. Le sonate per pianoforte (senza dimenticare quelle col violino o col violoncello!) fanno da sempre parte di “ciò che ogni pianista deve sapere”. Il direttore Hans von Bülow le definiva “il Nuovo Testamento”, mentre l’Antico sarebbe il Clavicembalo ben temperato di Bach.

Le Sonate eseguite in concerto non sono molte, però…
È vero: la Patetica, la Waldstein, Les Adieux. Guarda caso, quelle con titoli, perlopiù apocrifi. Solo pochi artisti hanno affrontato l’incisione integrale, come Maurizio Pollini, appena scomparso.

E i Quartetti?
Fin dall’inizio erano stati pensati per gli esecutori (professionisti, o dilettanti di alto livello) più che per il grande pubblico. Ancor oggi il pubblico dei concerti da camera è più ridotto rispetto ai concerti sinfonici. In particolare in Italia, dove pure c’è una grandissima tradizione esecutiva: l’incisione completa del Quartetto Italiano è un riferimento luminoso.

Che cosa può trasmetterci oggi Beethoven?
Un messaggio illuministico incarnato nei suoni: l’esempio di chi sa assumersi le proprie responsabilità o, come diceva Kant, ha il coraggio di far uso della propria intelligenza, di pensare colla propria testa.

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Nella foto in alto | Ai lati due ritratti: a sinistra quello di Carl Jaeger, a destra quello forse più noto di Joseph Karl Stieler. Al centro il monumento al compositore – realizzato da Jacob Daniel Burgschmiet – che si può trovare a Bonn che così celebra il suo figlio più celebre