Il compositore Franco Piersanti ha recentemente ritirato la propria candidatura ai David di Donatello in aperta polemica con l’organizzazione. Il maestro sostiene che essendo stata designata una specifica categoria per il miglior compositore, non ha senso farvi competere film con un’alta percentuale di musica di repertorio. Credo che Piersanti abbia perfettamente ragione nel denunciare una modalità che genera fraintendimenti, svilendo il lavoro del compositore, autore di musiche originali. Il suo gesto, inoltre, accende finalmente un riflettore su una serie di problematiche che, a mio avviso, vanno ben oltre quello che i media generalisti sono stati in grado di recepire.

Credo sia opportuno ricordare innanzitutto che l’uso di musica di repertorio (canzoni o brani strumentali) nel cinema d’intrattenimento è un modus operandi piuttosto diffuso; tuttavia, se in alcuni film queste musiche non assolvono ad alcuna specifica funzione estetico-narrativa, in altri, come ad esempio Pulp Fiction di Tarantino, rappresentano un vero e proprio tratto distintivo della pellicola. L’impiego di musiche “già scritte” è notoriamente una pratica diffusa anche nel cinema colto, si vedano in tal senso i molti film francesi che ricorrono sovente a musica “classica”, o pellicole come 2001 A Space Odyssey di Kubrik, la cui colonna sonora è composta da musiche d’arte.

Come lo stesso Piersanti credo abbia suggerito in diverse occasioni, il primo passo per uscire definitivamente dall’equivoco è quello di creare una categoria per la miglior colonna sonora non originale, nella quale, a mio avviso, tener finalmente conto di due fattori fondamentali. Il primo è il ruolo autoriale svolto dal music supervisor e dal montatore (in inglese giustamente definito editor…) i quali scelgono ed editano effettivamente la musica sul film. Il secondo riguarda la necessità di prevedere una categoria per la musica leggera o d’intrattenimento, ed un’altra per la musica d’arte. Far competere nella stessa sezione You Never Can Tell di Chuck Berry e Lux Aeterna di György Ligeti (brani rispettivamente tratti dalle suddette pellicole) finirebbe infatti col dar luogo ad ulteriori fraintendimenti, alimentando una pericolosa tendenza a mischiare tutto nel nome di una presunta democraticità di facciata al ribasso.

Venendo alla questione delle musiche originali, partiamo innanzitutto da una considerazione meramente quantitativa. Un compositore che realizza brevi raccordi musicali originali per un film (zeppo o meno che sia di musica di repertorio) non dovrebbe competere nella stessa categoria di un autore che compone ed orchestra un’ora di musica originale sul film. Tagliando la testa al toro, gli americani hanno imposto una percentuale minima di musica originale che occorre raggiungere affinché un autore possa essere candidabile nella sezione miglior colonna sonora originale.

Esiste poi, a mio avviso, una questione qualitativa di metodo, che riguarda i due principali approcci alla composizione di musiche originali. In un primo caso esse vengono composte direttamente sulla scena, innescando un dialogo sinestetico tra musica ed immagine in cui il compositore, intersecandosi con gli altri elementi del film, propone una propria lettura autoriale dello stesso intervenendo chirurgicamente su ogni dettaglio. In un secondo caso, si compone musica liberamente, sebbene ispirati dalla sceneggiatura, esonerati tuttavia dai vincoli del montaggio e dal rapporto con tutti quegli elementi percettivi del film che obbligano il compositore a gestire con cura i delicati equilibri che intercorrono tra autonomia musicale e rispetto dell’immagine.

Interessante notare in tal senso che l’espressione anglosassone original score contiene un termine, che deriva dall’antico scor, impiegato anticamente nell’ambito dell’incisione di segni su assi di legno, al fine di tenere il conto di qualcosa. Proviamo dunque ad immaginare la vecchia pellicola, o la moderna timeline digitale come una sorta di asse orizzontale sulla quale il compositore opera, ed i segni che esso vi incide, come fotogrammi chiave a partire dai quali dar vita a specifiche sinergie tra suono ed immagine. Nel caso del primo metodo, dunque, è la musica che si insinua e radica tra le pieghe dell’immagine, nel caso del secondo, al contrario, è il montaggio che si appoggia e dispiega sulla musica.

Importante precisare inoltre che il problema non è il pedigree dell’autore, o il genere musicale della colonna sonora originale. Ry Cooder, chitarrista autodidatta, ha scritto colonne sonore di grandissimo effetto, come nel caso del film Last Man Standing di Walter Hill. Compositori blasonati e dalla formazione certamente più accademica come James Horner hanno dato vita, tra tante cose ottime, anche a musiche molto brutte come nel caso di Troy di Wolfgang Petersen. In un’eventuale competizione, nessuna giuria dovrebbe aver dubbi sull’assegnare il premio al chitarrista statunitense. Dare ad ogni produzione la corretta collocazione è fondamentale. Nel 1984, ad esempio, i Toto composero una buona colonna sonora originale per il film Dune di David Lynch. È questo il caso di un gruppo rock che scrive musiche strumentali originali, sul film. Diversamente dal solista Ry Cooder, si pone qui tuttavia un ulteriore problema. Una colonna sonora scritta a dieci mani è chiaramente un’opera collettiva, e come tale andrebbe trattata. Inoltre è del tutto evidente che il compositore è una figura che rimane strutturalmente dietro le quinte. Una band, all’opposto, gode di un successo popolare, extra-cinematografico, che rischia di alterare profondamente il senso della competizione, soprattutto al cospetto di giurie impreparate.

In certi concorsi, infatti, esiste innegabilmente un problema d’incompetenza specifica dei giurati, i quali sono chiamati a votare per aree professionali di cui non padroneggiano la storia ed i rudimenti. Costumisti che votano per la musica, direttori della fotografia che votano per il montaggio, che senso ha? E in questo caso parliamo pur sempre di addetti ai lavori che, seppur collateralmente, un minimo di competenza nelle aree limitrofe l’hanno probabilmente acquisita. Ma che dire della folta schiera di giornalisti e critici che votano a caso, o peggio ancora a cascata in base al successo del film? Inoltre, con centinaia di pellicole in concorso, anche ammesso che i giurati fossero competenti, come potrebbero mai visionare tutti i film? Il problema è che queste iniziative sono in mano a burocrati che hanno come unica urgenza quella di monetizzare nell’immediato, anche a costo di rendere insignificanti, nel tempo, queste kermesse.

In un panorama desolante, nel quale c’è chi pensa ancora di cavarsela con battutine democristiane salvo poi accettare i premi, ben vengano interventi chiari e netti come quello del maestro Piersanti. Sarebbe bello se altri autori, soprattutto quelli premiati in un sotto scala, avessero finalmente un sussulto d’orgoglio. Tanto più che mentre una volta questi premi spostavano gli equilibri al botteghino, lanciando le carriere dei vincitori, da anni non smuovono più nulla, costretti piuttosto ad inseguire e tirare per la giacchetta fenomeni cinematografici che hanno avuto successo per proprio conto.

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