di Michele Ortore, linguista
A distanza di poche ore – come se i due insigni protagonisti si fossero messi d’accordo – le pagine dei giornali si sono riempite sia della frociaggine sfuggita a Papa Francesco durante un incontro a porte chiuse con i Vescovi italiani, sia dello stronza auto-riferito dalla premier Giorgia Meloni mentre a Caivano, con malcelato ghigno, stringeva la mano al governatore De Luca.
Se qualche ingenuo si stupisse ancora del connubio tra il turpiloquio e la vita pubblica italiana (anche ai suoi massimi, o forse dovremmo dire sacri, livelli), bisognerebbe ricordargli che dagli anni Settanta in poi il tabù sulle parolacce nella nostra lingua si è gradualmente sgretolato, fino ad essere preso a picconate tra gli anni Novanta e Duemila dalle abitudini linguistiche della televisione commerciale, e poi dalla stessa comunicazione politica, che ha sdoganato sempre di più l’espressione volgare e perfino discriminatoria, rivolta al nemico o all’avversario di turno. Una tendenza ulteriormente esacerbata dalle reti sociali.
Come ha scritto il linguista Giuseppe Antonelli, la lingua dei politici, a cui un tempo si chiedeva di rappresentare per i cittadini il modello più alto e nobile, è passata dal paradigma della superiorità al paradigma del rispecchiamento: io sono uno di voi, parlo come voi, e pazienza se ogni tanto vola qualche parolaccia o qualche insulto; è tutta espressività, anzi, è tutta democrazia. Certo, negli anni Settanta, quando una giovane Dacia Maraini diede pubblicamente dello stronzo a Giuseppe Berto per una disputa letteraria, facendo entrare con prepotenza nelle pagine culturali dei quotidiani il dibattito sulla liceità del turpiloquio, nemmeno l’intellettuale più libertino avrebbe immaginato che un giorno anche il soglio pontificio avrebbe dato il proprio contributo alla questione.
Com’è stato ben notato da Marco Politi proprio qui sul Fatto, l’incredibile scivolone lessicale di Bergoglio (“un papa non parla come Charlie Hebdo”) non può essere declassato a gaffe: per quanto sia plausibile l’ipotesi che il termine gergale e omofobico sia stato usato senza consapevolezza della sua offensività (fraintendere il registro è il tipico errore dei parlanti non madrelingua), l’espressione rimane indiscutibilmente grave, proprio perché viene da chi ha reclamato spazio per tutti nella Chiesa, affermando – come nessuno dei suoi predecessori – la dignità dei credenti gay e della comunità Lgbtq in generale.
Proprio per questo, la battuta del Papa sui seminaristi non rivela soltanto una posizione conservatrice, ma rischia soprattutto di ferire e deludere chi, nel mondo cattolico, più si è impegnato nella riflessione su fede e omosessualità. Non a caso, attraverso la nota del portavoce, il Papa ha fatto arrivare le sue scuse ufficiali “per l’uso di un termine riferito da altri”.
Da linguista, però, devo sottolineare come a Bergoglio non manchi mai, anche in queste cadute, l’originalità: frociaggine è infatti un disfemismo (questo il termine tecnico con cui si indicano le parolacce) fin qui assente dai dizionari italiani, le cui occorrenze negli archivi dei principali quotidiani, fino a due giorni fa, si potevano contare sulle dita di una sola mano. È formato dal suffisso -aggine, che si applica ad aggettivi (sbadato > sbadataggine) e produce o rafforza una connotazione negativa. L’insulto di De Luca rilanciato provocatoriamente da Meloni, invece, è molto più trito: compare sui giornali italiani già nel 1973, anno in cui un articolo del Corriere riportava un virgolettato dell’allora ministro – proprio lui, direbbe un noto telecronista – Ciriaco De Mita (“Macché eccellenza! Chiamami Ciriaco, stronzo”).
Ma c’è un’altra questione, di non poco conto, che la curiosa coincidenza temporale fra i due casi di turpiloquio fa risaltare ancora di più. I protagonisti condividono, com’è evidente, una posizione di potere; eppure il loro potere effettivo nei confronti del meccanismo mediatico non potrebbe essere, nelle rispettive circostanze, più distante. Francesco, infatti, dice frociaggine in un discorso a porte chiuse, durante un incontro privato in cui può guardare in faccia i suoi interlocutori, e in situazioni del genere non è la prima volta che il Papa usa espressioni gergali con fini ironici, non sempre soppesando bene le conseguenze.
Se c’è un punto su cui sembrano concordare tutti, però, è che chiunque abbia divulgato la notizia della frociaggine ai media sia un nemico di Francesco: e se le idee del Papa sul tema dell’omosessualità nei seminari sono apparse retrive, ci sono pochi dubbi che le idee di questo qualcuno lo siano molto di più. Non possiamo dimenticare, infatti, come proprio il placet dato alla benedizione pastorale delle coppie dello stesso sesso abbia scatenato contro Bergoglio le polemiche dell’ala conservatrice. Francesco dunque è vittima del suo stesso turpiloquio, e cade da solo nella trappola mediatica.
La Presidente del Consiglio, al contrario, ha programmato tutto. Lo si capisce già dal passo baldanzoso con cui si dirige dritta verso De Luca, ripresa prontamente dal suo capo ufficio stampa, Fabrizio Alfano. Mentre serve la sua vendetta (“Presidente De Luca, la stronza della Meloni, come sta?”) probabilmente ha già in testa lo spartito successivo della propaganda, l’insistenza sulla donna forte capace di difendersi da sola, la passività di Schlein e così via.
Meloni insomma, al contrario di Francesco, sfrutta il turpiloquio recitando un ruolo che, mediaticamente, è di totale controllo. Quest’arte l’ha imparata dal suo vero maestro: anche Berlusconi, infatti, era un campione nel servire il turpiloquio al momento opportuno, sfruttando le critiche per risalire i sondaggi, o per deviare il dibattito. Provate a cercare le attestazioni di coglioni negli archivi digitali dei quotidiani: il filtro del politicamente corretto viene sfondato nel 2006, quando si registra un’impennata esponenziale, in corrispondenza della famosa frase sugli elettori di sinistra.
Insomma, se Falcone aveva sintetizzato un principio fondamentale delle sue indagini nel celebre “Segui i soldi, troverai la mafia”, viene il dubbio che ormai in Italia, se si vuole capire il potere, si debbano seguire le parolacce.