Cinema

Addio a Philippe Leroy, l’attore francese interprete di Yanez in Sandokan si è spento a Roma

di Davide Turrini

Addio a Philippe Leroy. “L’attore per caso”, poi celebre Yanez nel Sandokan della tv visto da 30 milioni di spettatori a puntata è morto a Roma nella sua casa sulla Cassia (“costruita con le mie mani”) dopo una lunga malattia. Aveva 93 anni. E per capire l’immensa popolarità e la carriera infinita di un ex militare francese, adottato come attore dalle produzioni italiane e dal pubblico italiano (nel momento in cui scriviamo non c’è ancora traccia della morte di Leroy sulle testate francesi, mentre su quelle italiane è un profluvio di ricordi, ndr) basta sfogliare la sua filmografia da più di 200 titoli tra cinema (oltre 160 film) e serie per la tv (da Sandokan a Don Matteo, passando per un cameo nell’Ispettore Coliandro).

Una cornucopia traboccante di interpretazioni di cinema di serie A, B e forse pure Z, di cinema d’autore, di pellicole smaccatamente commerciali, di ponderati sceneggiati Rai. Segno di una duttilità e versatilità nel variare registro sia nella dicotomia buoni/cattivi, come nella distinzione tra dropout e uomini potenti. Inevitabile quindi spaziare tra una manciata di titoli, quelli più emblematici, interpretati da un parigino aristocratico (genia dei Leroy-Beaulieu), figlio di diplomatici per diverse generazioni, nonché attivissimo militare della Legione Straniera che in piena gioventù andò a combattere in Indocina e in Algeria, proprio tra le fila dei più accaniti colonizzatori mentre la storia mostrava il dietrofront di una drastica decolonizzazione.

Di questo decennio della sua vita da ventenne – “guadagnò” per le sue azioni militari anche due Legioni d’Onore – Leroy parlò in un’intervista ad Avvenire alcuni anni fa. “Mi sono perdonato da un pezzo per i tanti errori commessi in gioventù, compreso quello di combattere e veder cadere in battaglia tanti uomini, molti erano miei amici. Anche perché io sono un pacifista convinto. Però all’epoca ero giovane e innamorato della bandiera, della mia patria che consideravo sacra: combattevo solo per la Francia in cui credevo molto più di oggi. La politica mi ha profondamente deluso, in questo momento ho stima soltanto per il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte”.

Dicevamo del giovane Philippe al collegio dei gesuiti di Montpellier, poi la carriera militare impetuosa e l’altrettanto impetuoso guizzo in Il buco di Jacques Becker nel 1960, uno dei film culto dei Cahiers du Cinema in cui Leroy è uno dei quattro carcerati che tentano la rocambolesca fuga dal penitenziario La Santè di Parigi. Manu Borelli è il suo personaggio, omino arcigno e intransigente della mala. In scena recita con un vero fuggiasco (Jean Keraudy) e con quelli che proprio come per lui grazie al Buco sfonderanno nel mondo del cinema: Marc Michel e Michel Constantin.

Ma è l’incontro con Vittorio Caprioli e Franca Valeri in tournée teatrale a Parigi a farlo diventare attore italiano da lì in avanti, per oltre cinquant’anni. Dapprima ha una piccola parte nel 1961 in Briganti italiani di Mario Camerini, un film storico drammatico con un cast all star tipico dell’epoca (Ernst Borgnine che fa il brigante ottocentesco del Sud, Vittorio Gassman, Katy Jurado e Bernard Blier, tra gli altri); poi è coprotagonista proprio con Caprioli regista e attore di Leoni al sole, sorta di Vitelloni a Positano, tratto in parte da Feriti a morte di La Capria, con un Leroy dall’accento napoletano, a petto nudo, pienamente disteso su battigia, scogli e letti, tra cui quello su cui flirta con una bionda Valeri.

Leroy non può che essere l’ardimentoso scultore Balli nel Senilità, tratto da Svevo, di Mauro Bolognini; ma è anche figura comica su due differenti registri: nel filone intimista al femminile in L’Attico di Gianni Puccini e in quello vagamente demenziale parodico di Il giorno più corto di Sergio Corbucci. È co-protagonista tra i partigiani borghesi del Partito d’Azione con Volonté e la Carrà in Il terrorista di De Bosio, ma è anche un criminale che escogita con un gruppo di insospettabili colleghi un colpo miliardario in una banca di Ginevra nel film d’azione intinto di ironia (Ocean’s eleven, per intenderci) Sette uomini d’oro, che avrà un sequel un anno dopo nel 1966. Film scattante e divertente, pieno di ritmo e apprezzato da pubblico e critica che diventa il primo gradino di estesa popolarità per Leroy.

E per far capire cosa significasse fare cinema negli anni sessanta pensate che Leroy solo nel 1964 gira dieci film e anche quando ingrana con Sette uomini d’oro, si dedica a lavori più discussi e quasi ostracizzati come L’occhio selvaggio (1967), autentico capolavoro maudit del bolognese Paolo Cavara (era coautore del successo planetario del contestato Mondo Cane con Jacopetti), dove Leroy, assoluto protagonista, da cineasta indie che cerca di documentare con la sua macchina da presa addirittura la morte, finisce per intessere un film a tema lungimirante sul potere falsificatorio del mezzo cinema e video tout court.

Ancora un altro paio di titoli, ancora titoli a dir poco eccentrici. Leroy è protagonista del post apocalittico Ecce homo e ancora è un medico misogino e sadico in Femina Ridens di Piero Schivazappa, nel tempo assurto a cult erotico e proibito. Basterebbe il decennio dei sessanta per scrivere ascissa e ordinata di un attore che tutti vogliono con il nome ben in grande sulla locandina; ma quando si apre il decennio dei settanta ecco che Leroy non si risparmia più ed è nella mischia dei poliziotteschi partecipando, tra gli altri, al capolavoro di Fernando Di Leo, Milano Calibro 9 e poi a quello che diventerà nel 1976 l’evento storico della tv italiana in sei episodi: Sandokan. Serie epica nella lavorazione che durò quattro anni tra pre produzione, set (otto mesi) e post produzione. Leroy interpreta il “fratellino” di Sandokan, il portoghese Yanez de Gomera: spavaldo, coraggioso e trasformista, Yanez detto la “tigre bianca” si staglia al fianco dell’iconico Kabir Bedi/Sandokan con cui peraltro non scattò né grande amicizia e nemmeno grande stima personale (“mentre giravamo in Malesia si credeva un Dio in terra”). Trenta i milioni di spettatori a puntata, per uno degli sceneggiati che modificò l’immaginario seriale d’avventura grazie al puntuale e millimetrico realismo voluto dal regista e ideatore (oggi diremmo lo showrunner), Sergio Sollima.

Leroy a questo punto ha oramai 46 anni ed è un attore affermato e riconosciuto ad ogni angolo di Roma. E così rallenta. Iniziano gli anni ottanta ed eccolo in alcune commedie come Il tango della gelosia di Steno con la Vitti; è Ignazio da Loyola in State buoni se potete di Luigi Magni; è lo zio col vizio del gioco d’azzardo di Pierre Cosso in Windsurf – il vento nelle mani; si diverte ad interpretare il Barone Rotschild in Montecarlo Gran Casinò dei Vanzina. Nel 1985 tenta nuovamente fortuna come protagonista di una miniserie in tre puntate, Il Corsaro, tratto da Conrad, dove si provano a rievocare senza successo atmosfere alla Sandokan, con un cast curioso: Ingrid Thulin, Laura Morante e Fabrizio Bentivoglio.

Negli anni novanta tornerà a lavorare con produzioni e registi francesi (è in Leon di Besson come in diversi titoli di Deray, Guediguian), non disdegnerà le apparizioni in commedie (Il pesce innamorato di Pieraccioni), nei drammi politici di Renzo Martinelli (in Vajont è l’anziano e discusso geologo Dal Piaz che firmò le perizie di agibilità della diga del Vajont) e persino in un’opera controversa, come Il sangue dei vinti, tratto dal libro di Giampaolo Pansa.

“Io non ho paura della morte e del Covid, scusate, ma alla mia età me ne frego”, dichiarò tre anni fa Leroy. “Mi preoccupa invece cosa sarà della generazione dei miei figli, perchè non so quale futuro gli stiamo consegnando. Ho solo un consiglio da dare a un ragazzo di oggi: prendi il treno che passa senza sapere dove scenderai”.

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